sabato 16 settembre 2017

Ormai è certo: lo smartphone è il male assoluto. Una posizione luddista? E pazienza.


Il video di Moby, quello che descrive un mondo angosciante in cui chi non vive associato allo smartphone H24 è perso per sempre, ma in fondo quel che è perso in se stesso è proprio il mondo, sembrava una cupa esagerazione. E invece no. Sono bastati ancora pochi casi di cronaca per superare il cartone animato che potete guardare qui sopra. Basti ricordare il turista italiano massacrato di botte in Catalunya mentre tutti riprendevano la scena. Non serve aggiungere altro.
Ora siamo arrivati al "riconoscimento facciale" promesso dall'Iphone X. In rete si trova una immagine satirica a sua volta orrifica e con un evidente riferimento al film Alien, personaggio creato dall'immaginifico Giger.


Esagerazioni? È sufficiente andare per strada, osservare le persone, nelle sale d'aspetto, nella metro, sui mezzi, e purtroppo anche molto spesso alla guida per riscoprire un'umanità alienata come mai nessun profeta dell'alienazione si sarebbe mai immaginato qualche decennio fa, quando "alienazione" era la parola di moda nella bocca e nelle penne degli intellettuali apocalittici.
Nei ristoranti oggi non si comunica, quanti tavoli in cui la simbiosi malefica persona-macchinetta si riflette nella stessa simbiosi malefica di chi sta davanti. Ma è così anche nelle nostre case. Almeno, davanti alla tv, ci si poteva ritrovare. Con questi aggetti maledetti no. Li vedo usare al cinema (meglio del film?), ai concerti ("faccio un live"), nelle gite scolastiche. Fino a quella imbecille di un ministro della disistruzione italiana che vorrebbe pure liberalizzarli tra i banchi, per completare l'assuefazione degli studenti all'idiozia e all'ignoranza di regime.
Siamo tutti sotto controllo. Siamo dentro fino al collo nel controllo globale. Liberi di regalare a chi vuole conoscerli, tutti i particolari delle nostre vite. Le nostre parole, le nostre immagini, i nostri pensieri aperti e quelli occulti. Si sa dove siamo in ogni momento, dove siamo stati e anche dove andremo. Quello scrigno maledetto che ci portiamo in tasca, divenuto il nostro alter ego, è una sorta di "anello" (quello del Signore degli Anelli) che si fa continuamente toccare, diteggiare, smanacciare, baciare ben oltre le nostre stesse volontà ed è una sorta di scatola nera di noi stessi, a completa disposizione dei nostri controllori. Noi invece non lo controlliamo più.
È una droga che collega direttamente i nostri neuroni alla grande Rete in cui tutto è messo in circolazione. Ché chi deve sapere sappia.
Orwell non c'era arrivato. Nemmeno lui. Erano i maxischermi a garantire il controllo sociale, il Grande Fratello. E invece no. Lo schermo è invece piccolo, e ce ne sono tanti quanti siamo noi che ci seguono appiccicati alle nostre carni in ogni nostro passo. L'incubo totalitario di Orwell nasceva dal collettivismo, d'altra parte, mentre l'incubo che si è realizzato per davvero  nasce invece dalle promesse del Paese dei Balocchi dell'individualismo sfrenato.
Tanti dicono "è il progresso", anche il semplice telefono sembrava un mezzo del diavolo appena venne inventato. Lo smartphone è però un'altra cosa. Mai è esistito un mezzo di comunicazione che li raggruppasse tutti, che desse l'illusione di avere il mondo in tasca con parole, immagini, suoni in tempo reale,  mentre in realtà altro non è che un paradiso artificiale che ti succhia sempre di più, fino a perderti nell'indistinto. E a farti perdere il senso della realtà vera.
Una posizione luddista, antiprogressista, reazionaria, conservatrice, bigotta? Pazienza. "Non tutto quel che viene dopo è progresso", scriveva il Manzoni, in uno dei suoi pochi pensieri a mio avviso condivisibili.
Quindi? Giusto che parli di me. Ho aspettato un bel pezzo a cedere al touch screen e a tutto quel che c'è sotto. Ne ho sempre usati di non miei, oggetti scartati dai familiari, più avanti di me in questa corsa all'alienazione dalla propria umanità.
Il mio attuale è vecchio, ha il vetro crepato, la batteria che tiene poco la carica. E non vedo l'ora che smetta di funzionare del tutto. Perché non lo sostituirò.
Voglio tornare a vivere, a respirare, a comunicare come e quando decido io, e non perché obbligato da un fischio, un lampo, un trillo, un richiamo di una sirena che lega e ti perde per sempre in un mondo già fin troppo perso per conto suo.

1 commento:

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Mi chiamo Gioann March Pòlli (Giovanni Marco Polli all'anagrafe italiana). Sono giornalista professionista e per quasi diciotto anni mi sono occupato di politica, culture e identità per il quotidiano la Padania. Credo nella libertà assoluta di pensiero e odio visceralmente le catene odiose del "politicamente corretto". E non mi piacciono, in un libero confronto di idee, barriere ideologiche, geografiche o mentali. Scrivetemi a camera.nord@libero.it