Premessa. Qui, nella Camera a Nord, l'unico televisore in grado di funzionare ha 53 anni di vita. E' un Cge da 19 pollici del 1962. Tutto a valvole e naturalmente in glorioso bianco e nero. Filtrati dalla sua storica nebbia catodica, i talk show contemporanei acquistano tutto un altro sapore. Sembrano distanti ere geologiche, provenienti quasi da un'altra galassia, inscatolati tra parentesi cosmiche e comiche, incorniciati tra parecchi strati di metaforiche virgolette.
Un curioso e buffo spettacolo che mi sentirei di consigliare a tutti, se mai avessero la possibilità di vedere la realtà televisiva odierna attraverso occhi e apparecchi d'antan.
Al dunque. Coccolati piacevolmente da una visione televisiva filtrata con queste modalità e depurata da ogni drammatica arroganza, è bello quindi prendere atto dai giornali italiani che sta per iniziare l'edizione 2015 dei mondiali di calcio per le nazionali dei popoli non riconosciuti, organizzata dalla federazione ConIFA. Il mondiale si svolge in Ungheria, a Debrecen, seconda città più importante dopo Budapest, poco distante dal confine con la Romania nonché sede di un club calcistico che milita nella massima serie del campionato magiaro.
Un po' deprimente, invece, leggere che il tanto interesse sui giornali italiani per questa manifestazione è dato non dall'evento in sé, ma dalle compagini in campo nello scontro iniziale: la rappresentativa della Padania incontra la nazionale del popolo Rom. Inutile quindi trovare resoconti seri di questa notizia e di questa iniziativa lodevolissima. I popoli senza Stato, le Nazioni non riconosciute, sono infatti faccenda molto seria. Ma notoriamente non per i giornalisti italiani, allevati nel culto statolatrico dello Stato-Nazione, della lingua unica, dell'identità unica, della bandiera unica, dal Piave che mormorò calmo e placido e dell'inesistenza di tutto il resto.
Ancor meno pensabile, per i media mainstream, che si possa scindere l'idea di Padania dall'idea di Lega Nord. E quindi tutti a sogghignare e a darsi di gomito ed a fare ironia su un incontro che, avesse riguardato il Tibet contro la Palestina, purtroppo non si sarebbe filato proprio nessuno nemmeno per sbaglio.
Invece il sublime match sportivo Padania-Rom meriterebbe ben altre attenzioni. Punto primo: la squadra di calcio chiamata Padania non ha (più) nulla a che fare con il partito politico Lega Nord. E questa è un'ottima cosa per tutti. Per i leghisti, per i padani e per il resto del mondo. Punto secondo: anche i popoli dell'attuale Nord Italia sono riconosciuti calcisticamente tanto quanto il Tibet, i Sami e i Rom e a tante altre minoranze, da una confederazione internazionale assolutamente sganciata da qualunque partito politico.
Punto terzo: con questo incontro calcistico (nella nazionale padana milita il fratello di Balotelli, per inciso) si ridà alla "questione Rom" il suo giusto e sacrosanto significato identitario, sganciandolo da quella sovrapposizione alle vicende di ordine pubblico giustamente stigmatizzata, e non certo da ora ma da decenni, dagli stessi migliori rappresentanti intellettuali dei popoli Rom e Sinti.
Chi scrive e chi abita in questa Camera ha da un paio di mesi sottoscritto la proposta di legge popolare per il riconoscimento delle lingue Rom e Sinti, e ancora oggi rinnova l'invito a tutti a fare altrettanto. Riconoscimento di lingua, che spetterebbe a tutti i popoli che ne hanno una non riconosciuta, e riconoscimento di uguali diritti e uguali doveri. Un'intenzione, quest'ultima, presente anche nelle dichiarazioni di tutti quelli che poi vanno nei talk show, anche se con toni e accenti completamente diversi tra loro a seconda dei punti di partenza.
Che inizi il mondiale dei popoli non riconosciuti, quindi. Il match Padania-Rom? Per me vinca il migliore, sportivamente parlando. Il migliore è chiunque dei due dimostri di esserlo sul campo. Con preventivo e successivo scambio di gagliardetti, abbracci sportivi e maglie sudate al fischio finale.
Ascolto musicale consigliato:
https://www.youtube.com/watch?v=6wFFIYAFjzw
Pensieri scomodi intorno ad un'epoca ancora più scomoda. Un blog di Gioann March Pòlli.
mercoledì 10 giugno 2015
lunedì 8 giugno 2015
Elezioni turche: quando le minoranze si uniscono possono davvero fare la differenza
C'erano una volta i "turchi della Montagna", ché la stessa parola "curdi" in Turchia era vietata e il potere imponeva, per nominarli, di ricorrere alla metafora. Un popolo fuorilegge, proprio come la loro lingua. Dire "curdi" era come dire "terroristi" ed evocare subito il Pkk e quel suo leader politico e militare, Abdullah Ocalan, che non a caso, grazie agli italiani brava gente, langue tuttora da 13 anni in una galera di Ankara.
Oggi, dopo le ultime elezioni turche, per quel popolo islamico ma sostanzialmente laico, colorato e allegro malgrado le sue immani tragedie secolari, e quindi anche guerriero come sta dimostrando contro l'Isis in Siria, non soltanto ha ricominciato ad esistere, ma è entrato di diritto nel parlamento turco. Con 13 suoi rappresentanti, e con grande scorno del presidente sedicente "islamico moderato" Erdogan.
Può darsi che la stessa geopolitica che ha sempre messo il veto all'ipotesi di costruzione di uno Stato per il popolo curdo, che pure ne avrebbe avuto diritto in base al trattato di Sèvres del 1920, ora abbia fatto il suo giro. Quel popolo, per gli strani destini della Storia, oggi può far comodo.
E può darsi che siano stati proprio certi "alleati occidentali" a favorire e sostenere l'ascesa di un partito, l'HDP, che ha comunque un nome ed un programma che suona molto simpatico e rivoluzionario a tutte le latitudini e longitudini: "Partito democratico dei popoli".
In ogni caso, questo partito curdo, guidato dal giovane Selahattin Demirtas - bomba o non bomba, vista la sanguinosa esplosione che ha fatto quattro vittime al comizio finale a Dyarbakir, capitale non dichiarata del Kurdistan "turco" - è così entrato in forze in parlamento. "Una vittoria degli oppressi e di tutte le minoranze etniche", ha detto giustamente Demirtas.
Ma è anche una vittoria della speranza laica contro un islam tanto "moderato" da far dire a Erdogan che "è meglio se le donne non ridono in pubblico" e da spingerlo a costringere sua moglie a circolare velata.
Va osservato infatti che l'Hdp, insieme ai curdi e ad altre minoranze tra cui quelle cristiane, rappresenta anche i diritti civili richiesti dalle comunità LGBT in una campagna elettorale in cui Erdogan non ha disdegnato i consueti attacchi omofobi. Come al solito, passati in Occidente quasi sotto silenzio.
Quando le minoranze si uniscono possono davvero inceppare le ruote del potere, o almeno mutarne in parte la direzione.
Una lezione che, dalle nostre parti, non viene mai né capita né, tantomeno, messa in pratica.
Ascolto musicale consigliato:
https://www.youtube.com/watch?v=kdPZ-U_3t0A
Oggi, dopo le ultime elezioni turche, per quel popolo islamico ma sostanzialmente laico, colorato e allegro malgrado le sue immani tragedie secolari, e quindi anche guerriero come sta dimostrando contro l'Isis in Siria, non soltanto ha ricominciato ad esistere, ma è entrato di diritto nel parlamento turco. Con 13 suoi rappresentanti, e con grande scorno del presidente sedicente "islamico moderato" Erdogan.
Può darsi che la stessa geopolitica che ha sempre messo il veto all'ipotesi di costruzione di uno Stato per il popolo curdo, che pure ne avrebbe avuto diritto in base al trattato di Sèvres del 1920, ora abbia fatto il suo giro. Quel popolo, per gli strani destini della Storia, oggi può far comodo.
E può darsi che siano stati proprio certi "alleati occidentali" a favorire e sostenere l'ascesa di un partito, l'HDP, che ha comunque un nome ed un programma che suona molto simpatico e rivoluzionario a tutte le latitudini e longitudini: "Partito democratico dei popoli".
In ogni caso, questo partito curdo, guidato dal giovane Selahattin Demirtas - bomba o non bomba, vista la sanguinosa esplosione che ha fatto quattro vittime al comizio finale a Dyarbakir, capitale non dichiarata del Kurdistan "turco" - è così entrato in forze in parlamento. "Una vittoria degli oppressi e di tutte le minoranze etniche", ha detto giustamente Demirtas.
Ma è anche una vittoria della speranza laica contro un islam tanto "moderato" da far dire a Erdogan che "è meglio se le donne non ridono in pubblico" e da spingerlo a costringere sua moglie a circolare velata.
Va osservato infatti che l'Hdp, insieme ai curdi e ad altre minoranze tra cui quelle cristiane, rappresenta anche i diritti civili richiesti dalle comunità LGBT in una campagna elettorale in cui Erdogan non ha disdegnato i consueti attacchi omofobi. Come al solito, passati in Occidente quasi sotto silenzio.
Quando le minoranze si uniscono possono davvero inceppare le ruote del potere, o almeno mutarne in parte la direzione.
Una lezione che, dalle nostre parti, non viene mai né capita né, tantomeno, messa in pratica.
Ascolto musicale consigliato:
https://www.youtube.com/watch?v=kdPZ-U_3t0A
sabato 6 giugno 2015
Troppo sole, troppe sòle. Ritornare a Nord rinfresca l'animo.
Bello il mare, ma una baita nel bosco è meglio. Sì, certi paesaggi mediterranei levano il fiato, ma il caldo sempre più insopportabile lo leva ancor di più. Entusiasmante Facebook, che può dare l'impressione di vivere nell'esatto baricentro dell'ombelico del mondo, ma poi può portare all'inevitabile conseguenza di considerarlo coincidente con le coordinate del proprio. Quando la via si perde tra laghi di sudore e deserti d'ansia, tra campi di girasoli sterili e risse da angiporti infantili, ritrovare la chiave della Camera a Nord è santa e preziosa benedizione. Un bicchierino di quelli giusti, una radio a valvole, giornali di carta e magari un toscanello a metà strada tra Hemingway e un'osteria padana d'antan e si riporta tutto a casa. Senza più ossessioni e frenesie. Tra Bach e una milonga, tra una monferrina e Stravinskij le ore del giorno e le stagioni ritrovano il senso giusto di rotazione. Fanculo al girarrosto impazzito e al fried chicken del fast food delle menti. Qui non si canta al modo delle rane. Vero, l'avevano già detto. Ma poi l'avevano ben presto dimenticato.
"Il cammino è chiaro, malgrado nessun occhio possa vedere...".
Bentornati. A voi e a me.
"Il cammino è chiaro, malgrado nessun occhio possa vedere...".
Bentornati. A voi e a me.
martedì 30 luglio 2013
RETROSPETTIVA / Immigrazione, conflitti in Ruanda, Umanitaria Padana: l'intervista del 2006 a padre Jean-Marie Vianney Gahaya
Giovanni Polli
Il Ruanda, Paese nell’Africa centro-orientale, è stato il teatro di uno tra i più sanguinosi genocidi del XX secolo. Nel 1994, dopo l’abbattimento dell’aereo dell’allora presidente Juvenàl Habyarimana, al potere con un governo dittatoriale dal 1973, i suoi sostenitori sobillarono la violenza della popolazione dell’etnia maggioritaria hutu nei confronti dell’etnia tutsi. In poco più di tre mesi, a partire dal 7 aprile, vennero massacrate - soprattutto a colpi di machete e di bastoni chiodati - tra un milione e un milione e mezzo di persone, nell’indifferenza pressoché totale del mondo.
Tra le vittime, l’intera famiglia di un giovane sacerdote cattolico, padre Jean-Marie Vianney Gahaya. Padre Jean-Marie fu l’unico sopravvissuto al brutale attacco alla sua casa. Oggi è presidente della Commissione Giustizia e Pace della diocesi di Butare, la seconda città più importante del Ruanda, nonché guida della parrocchia di Rugango. «Soltanto la mia fede - ricorda oggi padre Jean-Marie - mi ha dato la forza per superare tutti i problemi della mia vita».
Nei giorni scorsi, padre Jean-Marie era a Milano, in visita presso l’associazione Umanitaria padana onlus, dove è stato ricevuto dalla coordinatrice, Sara Fumagalli. In quella occasione, abbiamo chiesto al sacerdote di raccontarci come è oggi la situazione in Ruanda, a 12 anni dal genocidio.
«Oggi lavorare nel nostro Paese - racconta padre Gahaya - non è facile perché dobbiamo unire la gente, aiutarla a vivere insieme. Dobbiamo anche ricostruire tutto quello che è stato distrutto. Non è facile spiegare quello che è successo con il genocidio. Riusciamo oggi comunque a fare qualcosa di positivo per la nostra popolazione».
Dal punto di vista politico che cosa è accaduto dal ’94 a oggi?
«Il genocidio è stato fermato nel luglio 1994, con l’ascesa al potere del Fronte patriottico ruandese. Negli ultimi anni si sono svolte libere elezioni e l’attuale presidente Paul Kagameè un buon capo di Stato, il suo è un buon governo e noi abbiamo finalmente la pace».
Com’è oggi il rapporto tra le due etnie hutu e tutsi?
«Diciamo che ora, in questo periodo di pace, l’odio non c’è più. Adesso cerchiamo di ricostruire il Paese».
In particolare, la Chiesa cattolica come sta operando?
«Ricordo che in tutto il Ruanda i cristiani sono oltre l’80 per cento della popolazione, e in particolare i cattolici sono il 55 per cento. La Chiesa e lo Stato dopo il genocidio hanno lavorato tanto con attraverso gli aiuti dall’estero. Si sono iniziate a ricostruire le scuole e a insegnare alla gente la convivenza. Tra gli interventi, sono stati aiutati gli orfani e le vedove del genocidio, ma anche i parenti dei miliziani incarcerati. In particolare, il mio incarico diocesano è quello, attraverso la commissione per la Giustizia e la Pace, ad aiutare le persone a riconciliarsi e a superare l’odio».
Qual è la prima emergenza, oggi?
«La ricostruzione. Durante il genocidio sono stati distrutti anche edifici e strutture civili e quando i massacratori si sono visti sconfitti, prima della fuga, hanno fatto terra bruciata di tutto, dalle scuole agli ospedali. Oggi sono comunque già stati fatti molti passi in avanti per lo sviluppo, in particolare per scuola e sanità».
Lei è impegnato per lo sviluppo nel suo Paese. Che cosa prova quando vede le forze migliori dei Paesi come il suo mandate allo sbaraglio sui barconi dei nuovi trafficanti di uomini?
«Ci sono forze che stanno lavorando per distruggere l’Africa. È un fenomeno come quello dei negrieri che importavano schiavi in America. Gli africani devono restare in Africa per poter dare un futuro a questo Continente ricco sia di mezzi che di risorse naturali. Sono i nemici dell’Africa quelli che vengono a prendere la nostra mano d’opera».
Aiutare i popoli a casa loro è proprio, da sempre, l’impegno dell’Umanitaria padana onlus, ricorda a questo proposito Sara Fumagalli. «Dobbiamo aiutarli ad aiutarsi. Quindi privilegiamo sempre gli interventi sulla formazione professionale. In questo ci siamo trovati in perfetta sintonia con padre Jean-Marie, che ha questa stessa impostazione e porta richieste rivolte in questo senso. Ora aspettiamo la presentazione di un progetto definito di formazione, possibilmente basato sull’utilizzo dell’informatica che oggi in Africa è uno strumento fondamentale per favorire ogni altro tipo di sviluppo perché consente di lavorare e mantenere i contatti in maniera semplice ed economica».
«La diocesi di padre Jean-Marie - ricorda ancora Sara Fumagalli - già si occupa della scolarizzazione di base attraverso le scuole primarie. Con la conoscenza della lingua inglese e la formazione di base, l’utilizzo del computer permette l’apertura di una finestra sul mondo attraverso la quale è possibile far passare lo sviluppo di tutta la società. Siamo in attesa di ricevere un progetto definito, e l’Umanitaria padana non rimarrà di certo insensibile a questa richiesta».
(Pubblicato su la Padania di sabato 23 settembre 2006)
Il Ruanda, Paese nell’Africa centro-orientale, è stato il teatro di uno tra i più sanguinosi genocidi del XX secolo. Nel 1994, dopo l’abbattimento dell’aereo dell’allora presidente Juvenàl Habyarimana, al potere con un governo dittatoriale dal 1973, i suoi sostenitori sobillarono la violenza della popolazione dell’etnia maggioritaria hutu nei confronti dell’etnia tutsi. In poco più di tre mesi, a partire dal 7 aprile, vennero massacrate - soprattutto a colpi di machete e di bastoni chiodati - tra un milione e un milione e mezzo di persone, nell’indifferenza pressoché totale del mondo.
Tra le vittime, l’intera famiglia di un giovane sacerdote cattolico, padre Jean-Marie Vianney Gahaya. Padre Jean-Marie fu l’unico sopravvissuto al brutale attacco alla sua casa. Oggi è presidente della Commissione Giustizia e Pace della diocesi di Butare, la seconda città più importante del Ruanda, nonché guida della parrocchia di Rugango. «Soltanto la mia fede - ricorda oggi padre Jean-Marie - mi ha dato la forza per superare tutti i problemi della mia vita».
Nei giorni scorsi, padre Jean-Marie era a Milano, in visita presso l’associazione Umanitaria padana onlus, dove è stato ricevuto dalla coordinatrice, Sara Fumagalli. In quella occasione, abbiamo chiesto al sacerdote di raccontarci come è oggi la situazione in Ruanda, a 12 anni dal genocidio.
«Oggi lavorare nel nostro Paese - racconta padre Gahaya - non è facile perché dobbiamo unire la gente, aiutarla a vivere insieme. Dobbiamo anche ricostruire tutto quello che è stato distrutto. Non è facile spiegare quello che è successo con il genocidio. Riusciamo oggi comunque a fare qualcosa di positivo per la nostra popolazione».
Dal punto di vista politico che cosa è accaduto dal ’94 a oggi?
«Il genocidio è stato fermato nel luglio 1994, con l’ascesa al potere del Fronte patriottico ruandese. Negli ultimi anni si sono svolte libere elezioni e l’attuale presidente Paul Kagameè un buon capo di Stato, il suo è un buon governo e noi abbiamo finalmente la pace».
Com’è oggi il rapporto tra le due etnie hutu e tutsi?
«Diciamo che ora, in questo periodo di pace, l’odio non c’è più. Adesso cerchiamo di ricostruire il Paese».
In particolare, la Chiesa cattolica come sta operando?
«Ricordo che in tutto il Ruanda i cristiani sono oltre l’80 per cento della popolazione, e in particolare i cattolici sono il 55 per cento. La Chiesa e lo Stato dopo il genocidio hanno lavorato tanto con attraverso gli aiuti dall’estero. Si sono iniziate a ricostruire le scuole e a insegnare alla gente la convivenza. Tra gli interventi, sono stati aiutati gli orfani e le vedove del genocidio, ma anche i parenti dei miliziani incarcerati. In particolare, il mio incarico diocesano è quello, attraverso la commissione per la Giustizia e la Pace, ad aiutare le persone a riconciliarsi e a superare l’odio».
Qual è la prima emergenza, oggi?
«La ricostruzione. Durante il genocidio sono stati distrutti anche edifici e strutture civili e quando i massacratori si sono visti sconfitti, prima della fuga, hanno fatto terra bruciata di tutto, dalle scuole agli ospedali. Oggi sono comunque già stati fatti molti passi in avanti per lo sviluppo, in particolare per scuola e sanità».
Lei è impegnato per lo sviluppo nel suo Paese. Che cosa prova quando vede le forze migliori dei Paesi come il suo mandate allo sbaraglio sui barconi dei nuovi trafficanti di uomini?
«Ci sono forze che stanno lavorando per distruggere l’Africa. È un fenomeno come quello dei negrieri che importavano schiavi in America. Gli africani devono restare in Africa per poter dare un futuro a questo Continente ricco sia di mezzi che di risorse naturali. Sono i nemici dell’Africa quelli che vengono a prendere la nostra mano d’opera».
Aiutare i popoli a casa loro è proprio, da sempre, l’impegno dell’Umanitaria padana onlus, ricorda a questo proposito Sara Fumagalli. «Dobbiamo aiutarli ad aiutarsi. Quindi privilegiamo sempre gli interventi sulla formazione professionale. In questo ci siamo trovati in perfetta sintonia con padre Jean-Marie, che ha questa stessa impostazione e porta richieste rivolte in questo senso. Ora aspettiamo la presentazione di un progetto definito di formazione, possibilmente basato sull’utilizzo dell’informatica che oggi in Africa è uno strumento fondamentale per favorire ogni altro tipo di sviluppo perché consente di lavorare e mantenere i contatti in maniera semplice ed economica».
«La diocesi di padre Jean-Marie - ricorda ancora Sara Fumagalli - già si occupa della scolarizzazione di base attraverso le scuole primarie. Con la conoscenza della lingua inglese e la formazione di base, l’utilizzo del computer permette l’apertura di una finestra sul mondo attraverso la quale è possibile far passare lo sviluppo di tutta la società. Siamo in attesa di ricevere un progetto definito, e l’Umanitaria padana non rimarrà di certo insensibile a questa richiesta».
(Pubblicato su la Padania di sabato 23 settembre 2006)
sabato 13 ottobre 2012
Il Nobel alla Ue, un premio per la pace eterna
(pubblicato su la Padania di sabato 13 ottobre 2012)
E il prossimo chi sarà? Probabilmente il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, magari «per il ruolo attivo nel mantenere la pace, l’equilibrio e la stabilità dell’area mediorientale». O, perché no, anche il presidente bielorusso Alexander Lukashenko, per la sua indubbia capacità di «impedire la pericolosa ulteriore destabilizzazione degli Stati fuoriusciti dall’ex Unione Sovietica». E perché allora non direttamente l’intero governo di Pechino, «per il determinante contributo alla pacificazione del Tibet»? Di motivazioni per un Nobel per la Pace sballato ai personaggi più improbabili ce ne sarebbero a iosa. E se le si volesse cercare, le si troverebbero pure, visto che cosa stanno combinando lassù in Norvegia.
Di certo, negli ultimi anni da quelle parti circola un’aria strana. Nel 2009, infatti, arriva il primo colpo di scena spiazzante e imbarazzante, vale a dire il Nobel “sulla fiducia” attribuito all’appena eletto presidente statunitense Barack Obama. Un precedente talmente scombicchierato da essere richiamato un po’ da tutti, in queste ore. In effetti, a partire d quel 2009, si è perso il conto delle azioni militari compiute dalle truppe statunitensi, e delle vittime che l’operato dei soldati agli ordini del “Nobel per la pace” ha finito per procurare.
Non contenti di ciò, gli accademici del Nobel sono partiti per la recidiva. Nel bel mezzo di una crisi epocale, causata proprio dalla pretesa degli eurocrati di ridurre ad impossibile unità, omologare e condizionare le disparate economie e diseconomie del continente sotto le insegne della finanza, che cosa di meglio di un altro bel premio “sulla fiducia” ad un’organizzazione che, tra l’altro, non è precisamente ai vertici di popolarità nel Continente intero?
L’operazione appare chiara: tentare un lifting di immagine dando fiato alle sfiatatissime trombe della retorica, da contrapporre a quelli che già da qualche tempo, ancor prima degli “eurogolpe” greco ed italiano venivano già bollati come i “pericolosi populismi”. Vale a dire, le visioni critiche di chi non accetta che siano le banche e la finanza a dover condizionare a qualunque costo la vita dei cittadini europei, a qualunque Stato appartengano.
E così, un’istituzione fresca fresca dello scippo di sovranità del “Fiscal Compact”, che tratta i cittadini come i dipendenti di un’azienda il cui sacrificio debba essere finalizzato al profitto e non al proprio benessere, si vede attribuita il premio che fu, citati in ordine sparso, di Begin e Sadat, di Desmond Tutu, Rigoberta Menchu, Aung San Suchi, Lech Walesa e Michail Gorbaciov, ed ancora Rabin, Peres ed Arafat. Quest’anno l’Accademia ha scelto, in sostanza, di “onorare” le oligarchie finanziarie che agiscono su tutto e su tutti senza essere state legittimate da nessuno se non da se stesse. Complimenti vivissimi.
D’altra parte, a prendere atto delle trombe e trombette suonate per l’occasione, c’è da rimanere di sasso. Se da Oslo il comitato fa sapere di aver premiato la Ue per «aver contribuito per sei decenni all’avanzamento della pace e della riconciliazione, la democrazia e i diritti umani in Europa», da parte dei beneficiati è tutto un fuoco retorico di fila che si commenta da solo: «La riconciliazione - ha detto il solito presidente del Parlamento europeo Martin Schulz - è ciò che l'Unione Europea è. Può servire come fonte di ispirazione. L’Ue è un progetto unico che ha sostituito la guerra con la pace, l'odio con la solidarietà». Tra banchieri e finanzieri, senza dubbio.
Il presidente della Commissione Ue Josè Manuel Barroso ha twittato: «È un grande onore per l'intera Unione europea e per tutti i 500 milioni di cittadini Ue essere premiati con il Nobel per la pace 2012». Da chiedersi quasi se i circa 850 mila euro del premio saranno poi devoluti a progetti di sostegno dei milioni di cittadini finiti in miseria per le politiche finanziarie di Bruxelles. Ma il “botto” retorico è provenuto dal presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, che si è gonfiato tanto al punto da rischiare l’effetto esplosivo della rana di Fedro: «La Ue è veramente la più grande istituzione per la pace mai creata nella storia del mondo».
I nodi logici ancora più stringenti devono infatti arrivare al pettine, se si pensa che questa Unione europea è composta di Stati che tutto hanno fatto fuorché starsene in pace. Dobbiamo ricordare, anche qui citati in ordine sparso, gli ultimi bombardamenti francesi in Libia o quelli - cui partecipò anche l’aeronautica italiana ai tempi del governo D’Alema del 1998, su Belgrado? Altro che “garanzia di pace”, Bruxelles non è stata mai in condizioni non solo di dotarsi di una politica militare o estera comune, ma tantomeno di impedire ai suoi stati membri di usare la forza bellica con esiti anche disastrosi sul fronte della popolazione civile.
Da ricordare, tra l’altro, che nell’esercito di uno Stato membro dell’Unione europea, ciòè la Spagna, vi sono militari che hanno invocato i carri armati contro la Catalunya nel caso dichiarasse l’indipendenza. Cosa che ha fatto anche nientemeno che un vicepresidente dello stesso Europarlamento, l’eurodeputato spagnolo del Partito popolare Alejo Vidal Quadras. Anche lui insignito del “Nobel per la pace”, evidentemente.
Per fortuna voci critiche si sono alzati dalla stessa assemblea di Strasburgo. «Penso che sia un’assoluta vergogna», ha tuonato l’europarlamentare britannico Nigel Farage, leader del partito Ukip, che da sempre è schierato contro lo strapotere delle oligarchie finanziarie che guidano la Ue senza alcuna legittimazione popolare. «Penso che (la decisione di oggi, ndr) discrediti totalmente il premio Nobel».
Il precedente di Obama parla chiaro: non sia mai che il Nobel per la pace all’Europa dei banchieri sia stato assegnato come una minaccia di pace eterna all’Europa dei popoli.
E il prossimo chi sarà? Probabilmente il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, magari «per il ruolo attivo nel mantenere la pace, l’equilibrio e la stabilità dell’area mediorientale». O, perché no, anche il presidente bielorusso Alexander Lukashenko, per la sua indubbia capacità di «impedire la pericolosa ulteriore destabilizzazione degli Stati fuoriusciti dall’ex Unione Sovietica». E perché allora non direttamente l’intero governo di Pechino, «per il determinante contributo alla pacificazione del Tibet»? Di motivazioni per un Nobel per la Pace sballato ai personaggi più improbabili ce ne sarebbero a iosa. E se le si volesse cercare, le si troverebbero pure, visto che cosa stanno combinando lassù in Norvegia.
Di certo, negli ultimi anni da quelle parti circola un’aria strana. Nel 2009, infatti, arriva il primo colpo di scena spiazzante e imbarazzante, vale a dire il Nobel “sulla fiducia” attribuito all’appena eletto presidente statunitense Barack Obama. Un precedente talmente scombicchierato da essere richiamato un po’ da tutti, in queste ore. In effetti, a partire d quel 2009, si è perso il conto delle azioni militari compiute dalle truppe statunitensi, e delle vittime che l’operato dei soldati agli ordini del “Nobel per la pace” ha finito per procurare.
Non contenti di ciò, gli accademici del Nobel sono partiti per la recidiva. Nel bel mezzo di una crisi epocale, causata proprio dalla pretesa degli eurocrati di ridurre ad impossibile unità, omologare e condizionare le disparate economie e diseconomie del continente sotto le insegne della finanza, che cosa di meglio di un altro bel premio “sulla fiducia” ad un’organizzazione che, tra l’altro, non è precisamente ai vertici di popolarità nel Continente intero?
L’operazione appare chiara: tentare un lifting di immagine dando fiato alle sfiatatissime trombe della retorica, da contrapporre a quelli che già da qualche tempo, ancor prima degli “eurogolpe” greco ed italiano venivano già bollati come i “pericolosi populismi”. Vale a dire, le visioni critiche di chi non accetta che siano le banche e la finanza a dover condizionare a qualunque costo la vita dei cittadini europei, a qualunque Stato appartengano.
E così, un’istituzione fresca fresca dello scippo di sovranità del “Fiscal Compact”, che tratta i cittadini come i dipendenti di un’azienda il cui sacrificio debba essere finalizzato al profitto e non al proprio benessere, si vede attribuita il premio che fu, citati in ordine sparso, di Begin e Sadat, di Desmond Tutu, Rigoberta Menchu, Aung San Suchi, Lech Walesa e Michail Gorbaciov, ed ancora Rabin, Peres ed Arafat. Quest’anno l’Accademia ha scelto, in sostanza, di “onorare” le oligarchie finanziarie che agiscono su tutto e su tutti senza essere state legittimate da nessuno se non da se stesse. Complimenti vivissimi.
D’altra parte, a prendere atto delle trombe e trombette suonate per l’occasione, c’è da rimanere di sasso. Se da Oslo il comitato fa sapere di aver premiato la Ue per «aver contribuito per sei decenni all’avanzamento della pace e della riconciliazione, la democrazia e i diritti umani in Europa», da parte dei beneficiati è tutto un fuoco retorico di fila che si commenta da solo: «La riconciliazione - ha detto il solito presidente del Parlamento europeo Martin Schulz - è ciò che l'Unione Europea è. Può servire come fonte di ispirazione. L’Ue è un progetto unico che ha sostituito la guerra con la pace, l'odio con la solidarietà». Tra banchieri e finanzieri, senza dubbio.
Il presidente della Commissione Ue Josè Manuel Barroso ha twittato: «È un grande onore per l'intera Unione europea e per tutti i 500 milioni di cittadini Ue essere premiati con il Nobel per la pace 2012». Da chiedersi quasi se i circa 850 mila euro del premio saranno poi devoluti a progetti di sostegno dei milioni di cittadini finiti in miseria per le politiche finanziarie di Bruxelles. Ma il “botto” retorico è provenuto dal presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, che si è gonfiato tanto al punto da rischiare l’effetto esplosivo della rana di Fedro: «La Ue è veramente la più grande istituzione per la pace mai creata nella storia del mondo».
I nodi logici ancora più stringenti devono infatti arrivare al pettine, se si pensa che questa Unione europea è composta di Stati che tutto hanno fatto fuorché starsene in pace. Dobbiamo ricordare, anche qui citati in ordine sparso, gli ultimi bombardamenti francesi in Libia o quelli - cui partecipò anche l’aeronautica italiana ai tempi del governo D’Alema del 1998, su Belgrado? Altro che “garanzia di pace”, Bruxelles non è stata mai in condizioni non solo di dotarsi di una politica militare o estera comune, ma tantomeno di impedire ai suoi stati membri di usare la forza bellica con esiti anche disastrosi sul fronte della popolazione civile.
Da ricordare, tra l’altro, che nell’esercito di uno Stato membro dell’Unione europea, ciòè la Spagna, vi sono militari che hanno invocato i carri armati contro la Catalunya nel caso dichiarasse l’indipendenza. Cosa che ha fatto anche nientemeno che un vicepresidente dello stesso Europarlamento, l’eurodeputato spagnolo del Partito popolare Alejo Vidal Quadras. Anche lui insignito del “Nobel per la pace”, evidentemente.
Per fortuna voci critiche si sono alzati dalla stessa assemblea di Strasburgo. «Penso che sia un’assoluta vergogna», ha tuonato l’europarlamentare britannico Nigel Farage, leader del partito Ukip, che da sempre è schierato contro lo strapotere delle oligarchie finanziarie che guidano la Ue senza alcuna legittimazione popolare. «Penso che (la decisione di oggi, ndr) discrediti totalmente il premio Nobel».
Il precedente di Obama parla chiaro: non sia mai che il Nobel per la pace all’Europa dei banchieri sia stato assegnato come una minaccia di pace eterna all’Europa dei popoli.
venerdì 12 ottobre 2012
Goebbels è vivo e lotta insieme a Monti. Ma chissenefrega.
L'altro giorno stavo guardando il telegiornale con mia zia. "E chissenefrega"?, vi starete chiedendo, memori dell'omonima rimpiantissima rubrica dell'altrettanto rimpianto settimanale satirico "Cuore", inserto dell'Unità di più di vent'anni fa. Ed il problema è proprio questo: chissenefrega se una signora pensionata al minimo, più vicina agli ottant'anni che ai settanta, ascolta al tg il resoconto del consiglio dei ministri ed esclama: "Finalmente dimuniscono le tasse".
C'è voluto del bello e del buono a spiegarle che il calo di un punto delle due aliquote Irpef più basse non l'avrebbe riguardata, mentre l'avrebbe centrata in pieno l'aumento secco di un punto sull'Iva.
Ma chissenefrega. Chissà quante pensionate e pensionati, casalinghe di Voghera e casalinghi di Roccasecca ci saranno cascati di fronte all'ultimo teatrino dei golpisti al governo. Quanti di loro, di questi inermi cittadini in balia dell'istupidimento di massa, senza strumenti per comprendere gli infernali meccanismi della propaganda televisiva e senza qualcuno accanto che cerca di spiegarglieli, avranno creduto al miracolo: finalmente quei signori distinti si riuniscono e danno una buona notizia...
Perché, il giorno dopo, il teatrino è andato avanti. Già, perché qualcuno ha fatto notare che la riduzione dell'Irpef (tutta da dimostrare) andrebbe a vantaggio solo di chi l'Irpef la paga e per quanto la paga, mentre il punto in più di Iva lo pagano tutti, ma proprio tutti, anche andando a comperare non il caviale, ma l'insalata. A maggior ragione i pensionati al minimo. E allora subito, di rincalzo, la rassicurazione degli imbonitori di turno: "Ma le famiglie trarranno comunque un vantaggio dall'aumento con diminuzione, o dalla diminuzione con aumento, fate voi". Ah beh, si beh.
"Ma come è possibile che in televisione dicano una cosa non vera"?, si è chiesta ancora mia zia. Che ha sì un nipote giornalista disallineato e disorganico, fortemente eversivo ed alquanto eretico, ma non sempre ha la voglia di starlo a sentire.
Ringraziamo quindi ancora una volta Herr Joseph Goebbels, il ministro della propaganda del Terzo Reich, più vivo che mai nelle sue intuizioni, nonché inventore imbattuto ed imbattibile del postulato della comunicazione di tutti i regimi di tutte le ere di tutti i punti cardinali: "Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità". Ringraziamolo, perché ci fornisce la spiegazione di come, per chi gestisce il monopolio quasi assoluto dell'informazione, sia sempre possibile in questa italia, contrariamente ad un altro celebre postulato, imbrogliare così tante persone per così lungo tempo.
Oggi Goebbels è sempre vivo, e lotta insieme a Mario Monti ed al suo governo. Sudditi di questo regime, continuate a dormire sonni tranquilli, siate sereni e fiduciosi che la ripresa arriverà: le tasse hanno già iniziato a scendere, rilassatevi. E se qualcuno ogni tanto fa una domanda scomoda abbiate sempre la risposta pronta: l'italia ora è rispettata in Europa e nel Mondo. Per tutti gli altri piccoli problemi? Chissenefrega.
C'è voluto del bello e del buono a spiegarle che il calo di un punto delle due aliquote Irpef più basse non l'avrebbe riguardata, mentre l'avrebbe centrata in pieno l'aumento secco di un punto sull'Iva.
Ma chissenefrega. Chissà quante pensionate e pensionati, casalinghe di Voghera e casalinghi di Roccasecca ci saranno cascati di fronte all'ultimo teatrino dei golpisti al governo. Quanti di loro, di questi inermi cittadini in balia dell'istupidimento di massa, senza strumenti per comprendere gli infernali meccanismi della propaganda televisiva e senza qualcuno accanto che cerca di spiegarglieli, avranno creduto al miracolo: finalmente quei signori distinti si riuniscono e danno una buona notizia...
Perché, il giorno dopo, il teatrino è andato avanti. Già, perché qualcuno ha fatto notare che la riduzione dell'Irpef (tutta da dimostrare) andrebbe a vantaggio solo di chi l'Irpef la paga e per quanto la paga, mentre il punto in più di Iva lo pagano tutti, ma proprio tutti, anche andando a comperare non il caviale, ma l'insalata. A maggior ragione i pensionati al minimo. E allora subito, di rincalzo, la rassicurazione degli imbonitori di turno: "Ma le famiglie trarranno comunque un vantaggio dall'aumento con diminuzione, o dalla diminuzione con aumento, fate voi". Ah beh, si beh.
"Ma come è possibile che in televisione dicano una cosa non vera"?, si è chiesta ancora mia zia. Che ha sì un nipote giornalista disallineato e disorganico, fortemente eversivo ed alquanto eretico, ma non sempre ha la voglia di starlo a sentire.
Ringraziamo quindi ancora una volta Herr Joseph Goebbels, il ministro della propaganda del Terzo Reich, più vivo che mai nelle sue intuizioni, nonché inventore imbattuto ed imbattibile del postulato della comunicazione di tutti i regimi di tutte le ere di tutti i punti cardinali: "Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità". Ringraziamolo, perché ci fornisce la spiegazione di come, per chi gestisce il monopolio quasi assoluto dell'informazione, sia sempre possibile in questa italia, contrariamente ad un altro celebre postulato, imbrogliare così tante persone per così lungo tempo.
Oggi Goebbels è sempre vivo, e lotta insieme a Mario Monti ed al suo governo. Sudditi di questo regime, continuate a dormire sonni tranquilli, siate sereni e fiduciosi che la ripresa arriverà: le tasse hanno già iniziato a scendere, rilassatevi. E se qualcuno ogni tanto fa una domanda scomoda abbiate sempre la risposta pronta: l'italia ora è rispettata in Europa e nel Mondo. Per tutti gli altri piccoli problemi? Chissenefrega.
lunedì 14 maggio 2012
Se la Grecia torna al voto, chissà se i tecnocrati tenteranno "un'aggiustatina" come in Irlanda...
(pubblicato su la Padania di domenica 13 maggio)
E tre, fuori un altro. Dopo che il leader di Nuova Democrazia Antonis Samaras e quello della sinistra radicale di Syriza Alexis Tsipras avevano rinunciato all’impresa impossibile di formare un nuovo Governo dopo le elezioni in Grecia del 6 maggio, anche Evangelos Venizelos, capo dei socialisti del Pasok, ha ieri mattina formalmente rinunciato all’incarico affidatogli dal presidente Karolos Papoulias. Toccherà ora allo stesso Papoulias compiere un ultimo tentativo per far uscire la Grecia dall’impasse politico prima di riaffidare la parola alle urne con nuove elezioni. Venizelos aveva annunciato il fallimento l’altroieri sera, dopo il rifiuto di Syriza, peraltro ampiamente preannunciato, di entrare a far parte di un Governo di unità nazionale con socialisti, conservatori e sinistra democratica. Il punto è sempre il solito. Il popolo greco ha sonoramente sconfitto nelle urne i diktat dei finanzieri della Ue e del Fmi, e la conseguente politica da macelleria sociale imposta tramite il "gauleiter" Papademos, con l’appoggio dei partiti tradizionali di Atene costretti a firmare un patto anche per il futuro, nei mesi precedenti il voto. Ma l’Ue non molla la presa. Il presidente Papoulias incontrerà inizialmente già oggi i tre leader dei principali partiti, che hanno già fallito, uno dopo l’altro, il mandato esplorativo. Successivamente il presidente greco vedrà individualmente i leader degli altri quattro partiti entrati in parlamento. D’altra parte, le soluzioni che si presentano all’orizzonte non sono per nulla scontate. Le pressioni da parte dei capi Ue e dei leader dei Paesi "forti" dell’euro perché ad Atene si insedi un Governo che continui l’opera di Papademos malgrado la maggioranza dei cittadini ellenici sia fermamente contraria, nei giorni scorsi si sono ripresentate insistenti, fino a sfociare di fatto in vere e proprie minacce. Comunque vada, appare ormai quasi scontato che il Paese ellenico sia avviato all’uscita dalla moneta unica. Il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, riportato da Giuseppe Vita, presidente di Unicredit, in conferenza stampa a Milano, «ha detto che se la Grecia dovesse decidere in maniera autonoma di uscire dall’euro, nessuno glielo può impedire». Pertanto, «credo che esistano dei piani B» per arginare il caos a catena che potrebbe derivare dall’uscita di Atene dalla moneta unica. L’ad Ghizzoni ha spiegato, rispondendo ad un’altra domanda, di non essere «così negativo in merito all’impatto sull’euro» di una possibile uscita unilaterale di Atene dalla moneta unica, «perché i mercati in maggioranza pensano che la Grecia uscirà. I mercati ne hanno già scontato l’effetto». Ormai, l’ottimismo di maniera dei rappresentanti dei poteri bancari non si rivolge più al fatto che la Grecia rimanga nell’euro ma al fatto che l’uscita della Grecia dall’euro non provocherà un caos come quello temuto. In realtà, anche negli stessi organi della Ue ci si inizia ad accorgere che le minacce e gli anatemi diretti rivolti alla Grecia rischiano davvero di non produrre affatto gli effetti sperati. E così, il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, ha ammorbidito decisamente i toni e si è detto ora favorevole alla possibilità di dare più tempo ad Atene per permetterle di rispettare gli impegni presi con Ue ed Fmi, scongiurando così anche il rischio di una sua uscita dall’euro. «Non mi aggrappo alla richiesta di farle rispettare gli obiettivi di politica di bilancio nel mese concordato - ha detto Juncker, parlando a Berlino - Non ho problemi, per esempio, a dare un anno di più alla Grecia». Tuttavia, ha ricordato ieri il premier lussemburghese alla vigilia della riunione dell’Eurogruppo a Bruxelles che avrà la Grecia tra i temi principali all’ordine del giorno, «potremo parlare dell’agenda del risanamento dello Stato greco quando sarà stato formato un Governo, al momento non possiamo avviare negoziati separatamente con i partiti greci, non sarebbe possibile». Juncker ha poi chiarito di non ritenere giusto tenere troppo sotto pressione i greci. «Dobbiasmo lasciare che siano loro a decidere», ha sottolineato, avvertendo tuttavia Atene che non ci sono alternative al risanamento dei conti pubblici. Si fa strada quindi un’altra strana premonizione: che si torni presto alle urne e che, questa volta, da esse scaturisca "miracolosamente" una qualche formula favorevole ai diktat Ue. I precedenti non mancano. In Irlanda per ben due volte un referendum popolare bocciò i voleri dell’Unione europea. Nel 2001 l’Isola verde disse "No" al Trattato di Nizza, nel 2008 fece naufragare quello di Lisbona. In entrambi i casi, si impose la forzatura: un referendum analogo l’anno successivo che, in entrambi i casi portò "miracolosamente" i risultato sperato dagli eurocrati. Vogliamo scommettere che le eventuali nuove elezioni greche altrettanto "miracolosamente" possano portare ad un risultato che tranquillizzi i poteri forti? È una scommessa che, in nome di ciò che resta del concetto di "democrazia", ci auguriamo di cuore di perdere.
E tre, fuori un altro. Dopo che il leader di Nuova Democrazia Antonis Samaras e quello della sinistra radicale di Syriza Alexis Tsipras avevano rinunciato all’impresa impossibile di formare un nuovo Governo dopo le elezioni in Grecia del 6 maggio, anche Evangelos Venizelos, capo dei socialisti del Pasok, ha ieri mattina formalmente rinunciato all’incarico affidatogli dal presidente Karolos Papoulias. Toccherà ora allo stesso Papoulias compiere un ultimo tentativo per far uscire la Grecia dall’impasse politico prima di riaffidare la parola alle urne con nuove elezioni. Venizelos aveva annunciato il fallimento l’altroieri sera, dopo il rifiuto di Syriza, peraltro ampiamente preannunciato, di entrare a far parte di un Governo di unità nazionale con socialisti, conservatori e sinistra democratica. Il punto è sempre il solito. Il popolo greco ha sonoramente sconfitto nelle urne i diktat dei finanzieri della Ue e del Fmi, e la conseguente politica da macelleria sociale imposta tramite il "gauleiter" Papademos, con l’appoggio dei partiti tradizionali di Atene costretti a firmare un patto anche per il futuro, nei mesi precedenti il voto. Ma l’Ue non molla la presa. Il presidente Papoulias incontrerà inizialmente già oggi i tre leader dei principali partiti, che hanno già fallito, uno dopo l’altro, il mandato esplorativo. Successivamente il presidente greco vedrà individualmente i leader degli altri quattro partiti entrati in parlamento. D’altra parte, le soluzioni che si presentano all’orizzonte non sono per nulla scontate. Le pressioni da parte dei capi Ue e dei leader dei Paesi "forti" dell’euro perché ad Atene si insedi un Governo che continui l’opera di Papademos malgrado la maggioranza dei cittadini ellenici sia fermamente contraria, nei giorni scorsi si sono ripresentate insistenti, fino a sfociare di fatto in vere e proprie minacce. Comunque vada, appare ormai quasi scontato che il Paese ellenico sia avviato all’uscita dalla moneta unica. Il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, riportato da Giuseppe Vita, presidente di Unicredit, in conferenza stampa a Milano, «ha detto che se la Grecia dovesse decidere in maniera autonoma di uscire dall’euro, nessuno glielo può impedire». Pertanto, «credo che esistano dei piani B» per arginare il caos a catena che potrebbe derivare dall’uscita di Atene dalla moneta unica. L’ad Ghizzoni ha spiegato, rispondendo ad un’altra domanda, di non essere «così negativo in merito all’impatto sull’euro» di una possibile uscita unilaterale di Atene dalla moneta unica, «perché i mercati in maggioranza pensano che la Grecia uscirà. I mercati ne hanno già scontato l’effetto». Ormai, l’ottimismo di maniera dei rappresentanti dei poteri bancari non si rivolge più al fatto che la Grecia rimanga nell’euro ma al fatto che l’uscita della Grecia dall’euro non provocherà un caos come quello temuto. In realtà, anche negli stessi organi della Ue ci si inizia ad accorgere che le minacce e gli anatemi diretti rivolti alla Grecia rischiano davvero di non produrre affatto gli effetti sperati. E così, il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, ha ammorbidito decisamente i toni e si è detto ora favorevole alla possibilità di dare più tempo ad Atene per permetterle di rispettare gli impegni presi con Ue ed Fmi, scongiurando così anche il rischio di una sua uscita dall’euro. «Non mi aggrappo alla richiesta di farle rispettare gli obiettivi di politica di bilancio nel mese concordato - ha detto Juncker, parlando a Berlino - Non ho problemi, per esempio, a dare un anno di più alla Grecia». Tuttavia, ha ricordato ieri il premier lussemburghese alla vigilia della riunione dell’Eurogruppo a Bruxelles che avrà la Grecia tra i temi principali all’ordine del giorno, «potremo parlare dell’agenda del risanamento dello Stato greco quando sarà stato formato un Governo, al momento non possiamo avviare negoziati separatamente con i partiti greci, non sarebbe possibile». Juncker ha poi chiarito di non ritenere giusto tenere troppo sotto pressione i greci. «Dobbiasmo lasciare che siano loro a decidere», ha sottolineato, avvertendo tuttavia Atene che non ci sono alternative al risanamento dei conti pubblici. Si fa strada quindi un’altra strana premonizione: che si torni presto alle urne e che, questa volta, da esse scaturisca "miracolosamente" una qualche formula favorevole ai diktat Ue. I precedenti non mancano. In Irlanda per ben due volte un referendum popolare bocciò i voleri dell’Unione europea. Nel 2001 l’Isola verde disse "No" al Trattato di Nizza, nel 2008 fece naufragare quello di Lisbona. In entrambi i casi, si impose la forzatura: un referendum analogo l’anno successivo che, in entrambi i casi portò "miracolosamente" i risultato sperato dagli eurocrati. Vogliamo scommettere che le eventuali nuove elezioni greche altrettanto "miracolosamente" possano portare ad un risultato che tranquillizzi i poteri forti? È una scommessa che, in nome di ciò che resta del concetto di "democrazia", ci auguriamo di cuore di perdere.
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Informazioni personali

- Gioann March Pòlli
- Mi chiamo Gioann March Pòlli (Giovanni Marco Polli all'anagrafe italiana). Sono giornalista professionista e per quasi diciotto anni mi sono occupato di politica, culture e identità per il quotidiano la Padania. Credo nella libertà assoluta di pensiero e odio visceralmente le catene odiose del "politicamente corretto". E non mi piacciono, in un libero confronto di idee, barriere ideologiche, geografiche o mentali. Scrivetemi a camera.nord@libero.it