giovedì 19 ottobre 2017

Referendum lombardo e veneto: "Odio gli ignavi" e anche gli autolesionisti. Chi non vota è il miglior testimonial a favore del centralismo


Non è certo un mistero che, tra le altre cose, mi consideri un indipendentista acceso e radicale. E questo da un quarto di secolo, sempre a fianco delle ragioni di ogni popolo in cerca di autodeterminazione e contro la sopravvivenza di quei fetidi feticci ottocenteschi rappresentati dai cosiddetti "Stati nazione" (che poi nazioni non sono), sempre più inutili, sempre più dannosi, sempre più odiosi e antidemocratici.
Malgrado questo, e soprattutto per questo, alla vigilia di un appuntamento come quello dei referendum consultivi sull'autonomia che si tengono in Lombardia e Veneto, da piemontese residente in terra lombarda andrò a votare con grande convinzione e motivazione. Per il sì, è chiaro e naturale.
Sappiamo tutti - e tutti a partire dai promotori l'hanno detto con chiarezza - che con quanto accade in  Catalunya tutto questo non c'entra niente. Purtroppo, aggiungo io, ma questo è ancora un altro discorso.
Nonostante ciò, il significato e il dato politico di questo voto consultivo sono profondi.
Ogni qual volta sia possibile gridare, sussurrare, dichiarare, sostenere, firmare, controfirmare ogni iniziativa rivolta a percorrere la lunga e complicata strada della restituzione di poteri, competenze, diritti, legittimità dal centro ai territori, il girarsi dall'altra parte sarebbe soltanto stolto quando non criminale.
Ci possano essere simpatici o antipatici i promotori, ci possano apparire belli o brutti, interessati o disinteressati, furbi o cretini, utili o futili, il tacere quando ci viene chiesto se vogliamo riportare a casa o no quello che è nostro si trasforma in nient'altro che in una complicità di fatto con un potere tanto più lontano ed alto ed irraggiungibile tanto più è centralizzato e sordo alle istanze territoriali.
Si dirà che questo referendum non produce nulla, non fa scattare niente, non porta ad alcun risultato immediato e concreto. Può essere, mi auguro proprio di no, ma può anche non essere: un forte consenso popolare alla richiesta di più autonomia, quindi più poteri ai territori, quindi a noi stessi, è un dato politico fondamentale per poter pretendere una trattativa.
Viceversa, il dato politico che emergerebbe da una scarsa partecipazione sarebbe incontestabile e ci verrebbe sbattuto sul naso per i prossimi cent'anni: ai lombardi e ai veneti dell'autonomia non frega assolutamente nulla. Sono stati zitti quando potevano parlare, continuino pure a tacere e a pagare.
Per questo motivo la cieca ostinazione con cui certi "indipendentisti duri e puri" si affannano per far fallire il referendum è nient'altro che una incomprensibile connivenza con il nemico. Diventano, di fatto, le quinte colonne del centralismo e della conservazione dell'asse di potere Stato ottocentesco/Superstato Ue. 
Un'altra considerazione: una scarsa partecipazione al voto lombardo e veneto sarebbe una tomba non soltanto per le speranze delle due Regioni interessate, ma anche per tutte le altre. Con quale credibilità si potrebbe allora chiedere più autonomie e poteri per il Piemonte, la Liguria, l'Emilia-Romagna, ma anche per la Puglia e la Calabria, a titolo di esempio?
Mi ripeto: andare a votare ai due referendum, oggi, è l'unica possibiltà, del tutto legale e vincolante almeno da un punto di vista politico, che abbiamo per alzare la voce nella nostra legittima pretesa che ci venga restituito quello che è nostro: almeno alcuni pezzi di quei poteri che il centralismo romano sta viceversa regalando a mazzi al centralismo di Bruxelles.

Se invece le quinte colonne non sono effettivamente tali, allora non cerchino scuse per la loro ignavia. O per la loro idiozia. Perché si comportano proprio alla stregua del solito marito armato di cesoie contro se stesso per far dispetto alla moglie. Il non plus ultra dell'intelligenza.
Ci sarebbe infine una terza ipotesi. I massimalisti "duri e puri" hanno in realtà in tasca un piano alternativo: fare la rivoluzione al di fuori delle urne e della democrazia. Ce lo spieghino, ce lo illustrino, si mettano in marcia e se saranno convincenti molto di più di quanto pensano di esserlo nel tentare di farci stare a casa, li seguiremo fiduciosi e con lo sguardo proiettato verso i luminosi destini.

Però di barricate pronte non se ne vedono. All'orizzonte vedo le urne. E sempre più motivazioni per andare a votare, ben consapevole del fatto che quello di domenica 22 ottobre sarà soltanto un inizio per l'ancora lungo e difficile percorso di affrancamento. 
Ma, soprattutto, ancora più consapevole che il non andarci comporterebbe soltanto la sua indiscutibile fine.

Ascolto consigliato:
Fba, "Ol Pal", traduzione in lombardo bergamasco della celebre canzone catalana "Estaca" di Lluis Lach

mercoledì 4 ottobre 2017

E se i più fedeli alleati del mondialismo fossero proprio i sedicenti "sovranisti"?



Il formidabile risveglio del popolo catalano e il durissimo braccio di ferro con Madrid hanno dato la stura a un brulichio di ipotesi, controipotesi, complottismi e contocomplottismi, soprattutto in circolazione nei social, per additare e denunciare chi "vi sarebbe dietro" l'indipendentismo di Barcellona. Dalla clamorosa bufala sull'immancabile Soros di cui si è già detto in un altro articolo fino ai "poteri forti della Ue" che mirerebbero a disgregare, e chissà poi perché, gli stessi Stati che la compongono. 

Un brulichio di bisbigli che si è fatto sempre più caciara,  in particolare prodotta da parte di chi si proclama sovranista, e che lamenta la lesa maestà non tanto di Sua Altezza Reale Felipe VI di Spagna quanto del concetto stesso di "Stato nazione".
Un feticcio che è anche e soprattutto un concetto fallace e mendace, inventato nell'Ottocento, quando le borghesie capitalistiche internazionali, in accordo e in alleanza con le cancellerie e gli eserciti, presero una cartina geografica e vi disegnarono sopra i confini degli Stati fantoccio che meglio si addicevano ai loro interessi economici e li battezzarono "nazioni". Fomentando la creazione di movimenti in tal senso e riempiendo i libri di Storia di propagande retroattive atte a giustificarne l'esistenza.
La "nazione", in effetti, è e resta tutta un'altra cosa. È un concetto che non coincide per nulla con uno Stato attuale, quasi sempre plurinazionale di fatto quando non di diritto, ma con i popoli. I cui confini non sono geopolitici ma antropologici e sono sono quelli di storia, cultura e lingua. Confini peraltro dinamici e tutt'altro che immutabili nel tempo come si sarebbe preteso, e si pretenderebbe soprattutto oggi, per gli ordinamenti giuridici statali. 

L'italia è un caso esemplare di questa creazione in laboratorio stile Frankenstein: territorio geografico assai composito e ben distinto in macro aree, i suoi popoli, mai realmente "uniti" nemmeno ai tempi della dominazione romana e dell'invenzione del termine stesso "italia", erano e restano divisi proprio per clima, tradizioni, inclinazioni, storia, cultura e lingua. Quella denominata "italiana" parlata tra l'altro, ai tempi della creazione dell'italico regno per mano dei Savoia-Carignano, da appena circa il due per cento dei sudditi e nemmeno dai loro sovrani. Questo contando tra i sudditi i pochi e prezzolati intellettuali e l'intero numero dei tosco-laziali, che la impiegavano (con accenti assai diversi, peraltro) perché soltanto per loro era la effettiva "lingua propria".

A proposito di indipendentismo, viene in mente un documento oggi da tutti dimenticato ma che varrebbe la pena riproporre prima o poi nella sua interezza. Si tratta del Manifesto per un'Unione europea socialista, sottoscritto nel 1973 dagli indipendentisti armati irlandesi dell'Ira Provisional, dai baschi dell'Eta insieme con gli arpitani di Alpe, i sardi di Su Populu Sardu e anche con i piemontesi di Alp. Un suo passaggio ricordava giustamente che "i giovani borghesi "nazionali" (le virgolette sono nell'originale proprio per definire l'uso improprio del termine, nda) del secolo scorso (l'Ottocento, nda) hanno dato spazio al grande capitale monopolistico europeo". Aggiungendo inoltre che "tutti i nostri popoli si trovano in una situzione di subordinazione nei confronti del grande schieramento oligarchico europeo". Parole molto profetiche e sempre attualissime. Allora l'Unione europea si chiamava Mercato Comune Europeo ma il progetto era già molto ben chiaro per chiunque lo avesse voluto leggere.

Viene da chiedersi allora chi abbia voluto questo "superstato europeo" in nuce, e perché. Forse i popoli? Forse le nazioni? Oppure le stesse identiche oligarchie europee finanziarie e capitalistiche che nell'800 si inventarono a tavolino gli Stati fantoccio per i loro interessi? Quanti sono stati i popoli, in Europa, che hanno delegato liberamente e dopo un voto a Bruxelles la propria sovranità? Una sovranità che, nel caso dello Stato italiano, appartiene al popolo almeno formalmente sulla carta, ma che da palazzo si vorrebbe sempre più "cedere" alle oligarchie.
Ecco, sono proprio gli "Stati nazione", oggi difesi come un feticcio intoccabile dai sedicenti sovranisti, ad essersi comportati come principale strumento di passaggio dei poteri dai territori al centralismo oligarchico di Bruxelles. Perché voluti e costruiti un secolo prima dagli stessi identici poteri che un secolo dopo avrebbero inventato il leviatano europeo per meglio curarsi gli affari propri.

Seguendo il filo logico del discorso, appare quindi chiaro che chi si pone contro il leviatano europeo e il suo portato globale, il mondialismo, abbracciando lo Stato, ovvero lo strumento della sua costruzione in barba ai popoli e alle nazioni vere, finisce ad essere il primo complice del leviatano.
Denunciando la volontà dei popoli di riprendersi la sovranità verso il basso e pretendendo il mantenimento dell'integrità degli Stati inventati nell'Ottocento come strumento del capitalismo, sia i sovranisti "di destra" sia quelli "di sinistra" mascherati da internazionalisti si comportano come perfetti kapò al servizio dell'attuale Ue. 
Insomma, se si vuole "più libertà" e "più sovranità", affidarle in custodia ai propri aguzzini che ne fanno strame non è certo la scelta più furba. Anzi, è scelta suicida.

Un ragionamento assurdo?
Non più assurdo di quelli che si leggono quando qualcuno tenta di convincerci che "occorre difendere gli Stati nazionali minacciati sia dall'interno (dalle volontà secessioniste) e dall'esterno (dai poteri sovranazionali)". 
Oggi gli "Stati nazionali" non sono minacciati dai poteri sovranazionali: sono solo uno strumento nelle loro mani. E chi difende i primi finisce inevitabilmente per difendere i secondi.
Tornino quindi potere e sovranità ai popoli, se davvero vogliamo sperare di tornare ad essere padroni di noi stessi.



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Mi chiamo Gioann March Pòlli (Giovanni Marco Polli all'anagrafe italiana). Sono giornalista professionista e per quasi diciotto anni mi sono occupato di politica, culture e identità per il quotidiano la Padania. Credo nella libertà assoluta di pensiero e odio visceralmente le catene odiose del "politicamente corretto". E non mi piacciono, in un libero confronto di idee, barriere ideologiche, geografiche o mentali. Scrivetemi a camera.nord@libero.it