sabato 17 marzo 2018

Quel giorno ci fecero andare a casa da scuola. Poi qualcuno scrisse su un muro "L'a/mor(t)e di Moro è atto di bontà".



Ho aspettato un giorno da quel 16 marzo quarant'anni dopo. Ho letto gli amarcord, i "dove eravamo quando rapirono Aldo Moro" e allora mi sono deciso. Ho messo mano anch'io alla penna, con un giorno di ritardo. Perché di ricordi ne ho anch'io, eccome se ne ho.
Come molti, ero a scuola. Per la precisione, ero in seconda media.
A casa mia - forse è per questo che poi mi sono scelto quel dannato mestiere che ora non riesco più né a praticare né a scrollarmi di dosso - si ascoltavano tanti giornali radio, si vedevano un paio di Tg e si leggeva un quotidiano. Quindi non si può dire che vivessi proprio al di fuori della realtà. Anzi. Terrorismo, scontri politici, rapimenti, attentati, morti, battaglie di piazza, gambizzazioni erano all'ordine del giorno. Era diventato quasi un gioco: mio papà, prima di accendere la radio, pronunciava invariabilmente il cinico mantra: "Sentiamo chi è stato ammazzato oggi". L'aria che tirava, anche se si aveva poco più di dieci anni, la respiravamo tutti, non come oggi che a malapena un decenne medio sa che si trova a vivere in uno Stato chiamato "italia", ma se gli si chiede che cosa sia uno Stato l'unica risposta è uno sguardo perso nel nulla.
Ecco, quel giorno chi fosse stato rapito ce lo disse l'insegnante di italiano. Era stata chiamata fuori dall'aula e, poco dopo, ritornò bianca in volto e ci disse: "Hanno rapito Aldo Moro, è un fatto gravissimo, il preside ha deciso che dovete ritornare a casa". Figurarsi la reazione istintiva e immediata di una classe scolastica nella quale la campanella di fine lezioni suoni tre ore prima del previsto. Però ricordo che il tono grave con cui ci fu dato l'annuncio ci trattenne dal prorompere in scontate grida di gioia per la mezza vacanza fuori programma. L'aria la respiravamo davvero, ed era pesante.
Ecco, francamente non ricordo se in quel momento sapessi quale carica politica avesse Moro. Sapevo per certo che era un politico della Dc, di quelli molto importanti. Lo vedevo qua e là nei telegiornali, nelle tribune politiche in tv, e mia nonna mi raccontava qualche (rarissimo e pacato) pettegolezzo su di lui, sul suo aspetto, mi faceva notare particolari del suo atteggiamento. Di certo non capivo praticamente nulla di quello che diceva. E il contesto l'avrei infatti ricostruito qualche anno dopo, ai tempi del liceo.
Devo dire però che le scene dell'agguato viste in tv erano impressionanti, anche se si era abituati agli attentati. Ma erano comunque immagini lontane dalla cittadina di sedicimila abitanti in cui ero nato e cresciuto. Lontane e vicine al tempo stesso: era cittadina operaia, in cui il Pci aveva da sempre percentuali bulgare, e i cui muri raccontavano a chiare lettere le tante simpatie in circolazione per la "sinistra extraparlamentare" ideologicamente contigua alle Br. Un giorno comparve sull'asfalto di una piazza affacciata sul lago una enorme falce e martello dipinta con la vernice bianca. Ma era precisa, perfetta, sembrava quasi un'insegna ufficiale, di certo disegnata con un gigantesco stencil, con tutta calma. Quelli erano i tempi.
E poi, dopo 55 giorni, quando fu ritrovata la Renault 4 rossa con il cadavere del presidente della Dc, qualcuno scrisse un arzigogolato gioco di parole, con una vernice nera su un muro e una firma con la A cerchiata degli anarchici: "L'a/mor(t)e di Moro è atto di bontà". Uno sberleffo decisamente volgare e atroce, ma ormai fuori tempo massimo.
Giusta o sbagliata che fosse la "rivoluzione", manovrati o non manovrati che fossero i brigatisti (e oggi si è tutti propensi - e la logica lo assevera - a pensare che lo fossero),  in quel momento avvenne la frattura vera: una buona parte di chi, malgrado tutto, stava anche senza dirlo troppo forte dalla parte dei brigatisti comprese di essere stato fregato. Senza speranza.
Di lì a due anni sarebbe arrivata la Marcia dei Quarantamila quadri Fiat di Torino, a suonare la campana a morto per l'ubriacatura ideologica e i sogni rivoluzionari, e per annunciare, tronfia, l'arrivo degli Anni '80. Gli anni di Craxi, Berlusconi, del Caf, del Pci partito sempre più borghese e allineato con l'ordine geopolitico costituito. Altro che rivoluzione.
Però una cosa la voglio aggiungere: è giusto che i protagonisti di quegli anni ancora tutti da raccontare a chi li ha vissuti, magari di striscio, e a chi assolutamente non c'era, parlino. Dicano la loro. Barbara Balzerani, componente del commando del sequestro Moro, ha ragione: la storia non è scritta soltanto dai vincitori. Anche i vinti, e questo vale per tutte le battaglie che si possano giudicare "giuste" o "sbagliate", hanno pieno diritto di parlare. Portino allora il loro contributo alla ricostruzione degli eventi, dal loro punto di vista. Di "pentiti" o di irriducibili. A ciascuno di noi il compito di giudicare, valutare, pensare. Ammesso che ne siamo ancora capaci.
Ma il principio vale per tutti. Pensiamo poi che ai macellai del "risorgimento", quelli che misero ferro e fuoco Pontelandolfo e Casalduni, i Negri e i Cialdini, e agli stragisti di Bronte, i Garibaldi e i Bixio, sono ancora dedicate lapidi, strade e piazze e gli onori dei libri di Storia ufficiale.
Quei poteri che imperavano nel 1861 sono gli stessi identici che ci legavano negli Anni '70, e che ci stritolano ancora oggi. Nessuno mi toglie però dalla testa un'idea: se per qualche scherzo geopolitico avessero vinto i brigatisti, oggi le piazze sarebbero piene di monumenti a Renato Curcio.

Ascolto consigliato: Fabrizio De André: "Nella mia ora di libertà"

domenica 4 marzo 2018

Referendum in Svizzera: i cittadini non vogliono l'abolizione del canone radio-tv. Ma il loro "servizio pubblico" è serio e l'identità è sacra


Netta e clamorosa sconfitta del referendum in Svizzera per la soppressione del canone radiotelevisivo. Al termine di una lunga ed accesa campagna, il 71,6% dei votanti ha bocciato il testo promosso dalle sezioni giovanili di due partiti di destra (Unione democratica di centro e Partito liberale radicale) che volevano l'abolizione della tassa in nome del libero mercato. Se l'iniziativa fosse stata accettata, la Svizzera sarebbe stato il primo Paese in Europa ad abolire il servizio pubblico nel settore della radio e della televisione, come aveva sottolineato il governo, fortemente contrario alla proposta che minacciava "la sopravvivenza" della Società Svizzera di radiotelevisione (Ssr), l'equivalente - soltanto da un certo punto di vista - della Rai italiana in un mercato audiovisivo piccolo ma multilingue come quello elvetico. Il responso delle urne e' stato chiarissimo, con una valanga di "No" superiore a quanto pronosticato dai sondaggi e una rara e totale unanimità dei cantoni, con percentuali di voti contrari al testo che hanno raggiunto il 78,3% a Neuchatel e il 78,1% nel Giura.
Ancora una volta, probabilmente, gli italiani non capiranno. Tanto per cambiare. Ma come, in Svizzera danno la possibilità di non pagare più il canone televisivo nel modo più democratico possibile e a loro consueto, ovvero con il voto referendario, e loro decidono in massa di volerlo pagare lo stesso?
Sì, perché sanno che una tv di qualità, che non insegua l'audience nel modo più meschino e di infimo livello (all'italiana, insomma), ha costi e finalità che nessun privato si potrebbe permettere attraverso la semplice raccolta pubblicitaria.
La democrazia elvetica, perfetta e compiuta, ha dato insomma ancora una volta ottima prova di sé. Con buona pace degli ultraliberisti, che danno per scontato il predominio del mercato (soprattuto di quello che riempie le loro tasche) sul ruolo sociale e formativo che è esercitato dai media classici anche nell'era di internet.
Certo, il paradosso italiano di un "servizio pubblico" radiotelevisivo che dagli Anni '80 in poi ha rincorso nel baratro la qualità dei programmi delle tv private, fotocopia di una fotocopia delle televisionacce americane, non ha eguali.

Se qui avrei votato senza sena se e senza ma per l'abolizione del canone, in Svizzera sarei stato anche disposto ad un aumento, pur di difendere il pluralismo e l'identità. Roba che in italia è e resta del tutto sconosciuta.

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Mi chiamo Gioann March Pòlli (Giovanni Marco Polli all'anagrafe italiana). Sono giornalista professionista e per quasi diciotto anni mi sono occupato di politica, culture e identità per il quotidiano la Padania. Credo nella libertà assoluta di pensiero e odio visceralmente le catene odiose del "politicamente corretto". E non mi piacciono, in un libero confronto di idee, barriere ideologiche, geografiche o mentali. Scrivetemi a camera.nord@libero.it