Bello il mare, ma una baita nel bosco è meglio. Sì, certi paesaggi mediterranei levano il fiato, ma il caldo sempre più insopportabile lo leva ancor di più. Entusiasmante Facebook, che può dare l'impressione di vivere nell'esatto baricentro dell'ombelico del mondo, ma poi può portare all'inevitabile conseguenza di considerarlo coincidente con le coordinate del proprio. Quando la via si perde tra laghi di sudore e deserti d'ansia, tra campi di girasoli sterili e risse da angiporti infantili, ritrovare la chiave della Camera a Nord è santa e preziosa benedizione. Un bicchierino di quelli giusti, una radio a valvole, giornali di carta e magari un toscanello a metà strada tra Hemingway e un'osteria padana d'antan e si riporta tutto a casa. Senza più ossessioni e frenesie. Tra Bach e una milonga, tra una monferrina e Stravinskij le ore del giorno e le stagioni ritrovano il senso giusto di rotazione. Fanculo al girarrosto impazzito e al fried chicken del fast food delle menti. Qui non si canta al modo delle rane. Vero, l'avevano già detto. Ma poi l'avevano ben presto dimenticato.
"Il cammino è chiaro, malgrado nessun occhio possa vedere...".
Bentornati. A voi e a me.
Pensieri scomodi intorno ad un'epoca ancora più scomoda. Un blog di Gioann March Pòlli.
sabato 6 giugno 2015
martedì 30 luglio 2013
RETROSPETTIVA / Immigrazione, conflitti in Ruanda, Umanitaria Padana: l'intervista del 2006 a padre Jean-Marie Vianney Gahaya
Giovanni Polli
Il Ruanda, Paese nell’Africa centro-orientale, è stato il teatro di uno tra i più sanguinosi genocidi del XX secolo. Nel 1994, dopo l’abbattimento dell’aereo dell’allora presidente Juvenàl Habyarimana, al potere con un governo dittatoriale dal 1973, i suoi sostenitori sobillarono la violenza della popolazione dell’etnia maggioritaria hutu nei confronti dell’etnia tutsi. In poco più di tre mesi, a partire dal 7 aprile, vennero massacrate - soprattutto a colpi di machete e di bastoni chiodati - tra un milione e un milione e mezzo di persone, nell’indifferenza pressoché totale del mondo.
Tra le vittime, l’intera famiglia di un giovane sacerdote cattolico, padre Jean-Marie Vianney Gahaya. Padre Jean-Marie fu l’unico sopravvissuto al brutale attacco alla sua casa. Oggi è presidente della Commissione Giustizia e Pace della diocesi di Butare, la seconda città più importante del Ruanda, nonché guida della parrocchia di Rugango. «Soltanto la mia fede - ricorda oggi padre Jean-Marie - mi ha dato la forza per superare tutti i problemi della mia vita».
Nei giorni scorsi, padre Jean-Marie era a Milano, in visita presso l’associazione Umanitaria padana onlus, dove è stato ricevuto dalla coordinatrice, Sara Fumagalli. In quella occasione, abbiamo chiesto al sacerdote di raccontarci come è oggi la situazione in Ruanda, a 12 anni dal genocidio.
«Oggi lavorare nel nostro Paese - racconta padre Gahaya - non è facile perché dobbiamo unire la gente, aiutarla a vivere insieme. Dobbiamo anche ricostruire tutto quello che è stato distrutto. Non è facile spiegare quello che è successo con il genocidio. Riusciamo oggi comunque a fare qualcosa di positivo per la nostra popolazione».
Dal punto di vista politico che cosa è accaduto dal ’94 a oggi?
«Il genocidio è stato fermato nel luglio 1994, con l’ascesa al potere del Fronte patriottico ruandese. Negli ultimi anni si sono svolte libere elezioni e l’attuale presidente Paul Kagameè un buon capo di Stato, il suo è un buon governo e noi abbiamo finalmente la pace».
Com’è oggi il rapporto tra le due etnie hutu e tutsi?
«Diciamo che ora, in questo periodo di pace, l’odio non c’è più. Adesso cerchiamo di ricostruire il Paese».
In particolare, la Chiesa cattolica come sta operando?
«Ricordo che in tutto il Ruanda i cristiani sono oltre l’80 per cento della popolazione, e in particolare i cattolici sono il 55 per cento. La Chiesa e lo Stato dopo il genocidio hanno lavorato tanto con attraverso gli aiuti dall’estero. Si sono iniziate a ricostruire le scuole e a insegnare alla gente la convivenza. Tra gli interventi, sono stati aiutati gli orfani e le vedove del genocidio, ma anche i parenti dei miliziani incarcerati. In particolare, il mio incarico diocesano è quello, attraverso la commissione per la Giustizia e la Pace, ad aiutare le persone a riconciliarsi e a superare l’odio».
Qual è la prima emergenza, oggi?
«La ricostruzione. Durante il genocidio sono stati distrutti anche edifici e strutture civili e quando i massacratori si sono visti sconfitti, prima della fuga, hanno fatto terra bruciata di tutto, dalle scuole agli ospedali. Oggi sono comunque già stati fatti molti passi in avanti per lo sviluppo, in particolare per scuola e sanità».
Lei è impegnato per lo sviluppo nel suo Paese. Che cosa prova quando vede le forze migliori dei Paesi come il suo mandate allo sbaraglio sui barconi dei nuovi trafficanti di uomini?
«Ci sono forze che stanno lavorando per distruggere l’Africa. È un fenomeno come quello dei negrieri che importavano schiavi in America. Gli africani devono restare in Africa per poter dare un futuro a questo Continente ricco sia di mezzi che di risorse naturali. Sono i nemici dell’Africa quelli che vengono a prendere la nostra mano d’opera».
Aiutare i popoli a casa loro è proprio, da sempre, l’impegno dell’Umanitaria padana onlus, ricorda a questo proposito Sara Fumagalli. «Dobbiamo aiutarli ad aiutarsi. Quindi privilegiamo sempre gli interventi sulla formazione professionale. In questo ci siamo trovati in perfetta sintonia con padre Jean-Marie, che ha questa stessa impostazione e porta richieste rivolte in questo senso. Ora aspettiamo la presentazione di un progetto definito di formazione, possibilmente basato sull’utilizzo dell’informatica che oggi in Africa è uno strumento fondamentale per favorire ogni altro tipo di sviluppo perché consente di lavorare e mantenere i contatti in maniera semplice ed economica».
«La diocesi di padre Jean-Marie - ricorda ancora Sara Fumagalli - già si occupa della scolarizzazione di base attraverso le scuole primarie. Con la conoscenza della lingua inglese e la formazione di base, l’utilizzo del computer permette l’apertura di una finestra sul mondo attraverso la quale è possibile far passare lo sviluppo di tutta la società. Siamo in attesa di ricevere un progetto definito, e l’Umanitaria padana non rimarrà di certo insensibile a questa richiesta».
(Pubblicato su la Padania di sabato 23 settembre 2006)
Il Ruanda, Paese nell’Africa centro-orientale, è stato il teatro di uno tra i più sanguinosi genocidi del XX secolo. Nel 1994, dopo l’abbattimento dell’aereo dell’allora presidente Juvenàl Habyarimana, al potere con un governo dittatoriale dal 1973, i suoi sostenitori sobillarono la violenza della popolazione dell’etnia maggioritaria hutu nei confronti dell’etnia tutsi. In poco più di tre mesi, a partire dal 7 aprile, vennero massacrate - soprattutto a colpi di machete e di bastoni chiodati - tra un milione e un milione e mezzo di persone, nell’indifferenza pressoché totale del mondo.
Tra le vittime, l’intera famiglia di un giovane sacerdote cattolico, padre Jean-Marie Vianney Gahaya. Padre Jean-Marie fu l’unico sopravvissuto al brutale attacco alla sua casa. Oggi è presidente della Commissione Giustizia e Pace della diocesi di Butare, la seconda città più importante del Ruanda, nonché guida della parrocchia di Rugango. «Soltanto la mia fede - ricorda oggi padre Jean-Marie - mi ha dato la forza per superare tutti i problemi della mia vita».
Nei giorni scorsi, padre Jean-Marie era a Milano, in visita presso l’associazione Umanitaria padana onlus, dove è stato ricevuto dalla coordinatrice, Sara Fumagalli. In quella occasione, abbiamo chiesto al sacerdote di raccontarci come è oggi la situazione in Ruanda, a 12 anni dal genocidio.
«Oggi lavorare nel nostro Paese - racconta padre Gahaya - non è facile perché dobbiamo unire la gente, aiutarla a vivere insieme. Dobbiamo anche ricostruire tutto quello che è stato distrutto. Non è facile spiegare quello che è successo con il genocidio. Riusciamo oggi comunque a fare qualcosa di positivo per la nostra popolazione».
Dal punto di vista politico che cosa è accaduto dal ’94 a oggi?
«Il genocidio è stato fermato nel luglio 1994, con l’ascesa al potere del Fronte patriottico ruandese. Negli ultimi anni si sono svolte libere elezioni e l’attuale presidente Paul Kagameè un buon capo di Stato, il suo è un buon governo e noi abbiamo finalmente la pace».
Com’è oggi il rapporto tra le due etnie hutu e tutsi?
«Diciamo che ora, in questo periodo di pace, l’odio non c’è più. Adesso cerchiamo di ricostruire il Paese».
In particolare, la Chiesa cattolica come sta operando?
«Ricordo che in tutto il Ruanda i cristiani sono oltre l’80 per cento della popolazione, e in particolare i cattolici sono il 55 per cento. La Chiesa e lo Stato dopo il genocidio hanno lavorato tanto con attraverso gli aiuti dall’estero. Si sono iniziate a ricostruire le scuole e a insegnare alla gente la convivenza. Tra gli interventi, sono stati aiutati gli orfani e le vedove del genocidio, ma anche i parenti dei miliziani incarcerati. In particolare, il mio incarico diocesano è quello, attraverso la commissione per la Giustizia e la Pace, ad aiutare le persone a riconciliarsi e a superare l’odio».
Qual è la prima emergenza, oggi?
«La ricostruzione. Durante il genocidio sono stati distrutti anche edifici e strutture civili e quando i massacratori si sono visti sconfitti, prima della fuga, hanno fatto terra bruciata di tutto, dalle scuole agli ospedali. Oggi sono comunque già stati fatti molti passi in avanti per lo sviluppo, in particolare per scuola e sanità».
Lei è impegnato per lo sviluppo nel suo Paese. Che cosa prova quando vede le forze migliori dei Paesi come il suo mandate allo sbaraglio sui barconi dei nuovi trafficanti di uomini?
«Ci sono forze che stanno lavorando per distruggere l’Africa. È un fenomeno come quello dei negrieri che importavano schiavi in America. Gli africani devono restare in Africa per poter dare un futuro a questo Continente ricco sia di mezzi che di risorse naturali. Sono i nemici dell’Africa quelli che vengono a prendere la nostra mano d’opera».
Aiutare i popoli a casa loro è proprio, da sempre, l’impegno dell’Umanitaria padana onlus, ricorda a questo proposito Sara Fumagalli. «Dobbiamo aiutarli ad aiutarsi. Quindi privilegiamo sempre gli interventi sulla formazione professionale. In questo ci siamo trovati in perfetta sintonia con padre Jean-Marie, che ha questa stessa impostazione e porta richieste rivolte in questo senso. Ora aspettiamo la presentazione di un progetto definito di formazione, possibilmente basato sull’utilizzo dell’informatica che oggi in Africa è uno strumento fondamentale per favorire ogni altro tipo di sviluppo perché consente di lavorare e mantenere i contatti in maniera semplice ed economica».
«La diocesi di padre Jean-Marie - ricorda ancora Sara Fumagalli - già si occupa della scolarizzazione di base attraverso le scuole primarie. Con la conoscenza della lingua inglese e la formazione di base, l’utilizzo del computer permette l’apertura di una finestra sul mondo attraverso la quale è possibile far passare lo sviluppo di tutta la società. Siamo in attesa di ricevere un progetto definito, e l’Umanitaria padana non rimarrà di certo insensibile a questa richiesta».
(Pubblicato su la Padania di sabato 23 settembre 2006)
sabato 13 ottobre 2012
Il Nobel alla Ue, un premio per la pace eterna
(pubblicato su la Padania di sabato 13 ottobre 2012)
E il prossimo chi sarà? Probabilmente il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, magari «per il ruolo attivo nel mantenere la pace, l’equilibrio e la stabilità dell’area mediorientale». O, perché no, anche il presidente bielorusso Alexander Lukashenko, per la sua indubbia capacità di «impedire la pericolosa ulteriore destabilizzazione degli Stati fuoriusciti dall’ex Unione Sovietica». E perché allora non direttamente l’intero governo di Pechino, «per il determinante contributo alla pacificazione del Tibet»? Di motivazioni per un Nobel per la Pace sballato ai personaggi più improbabili ce ne sarebbero a iosa. E se le si volesse cercare, le si troverebbero pure, visto che cosa stanno combinando lassù in Norvegia.
Di certo, negli ultimi anni da quelle parti circola un’aria strana. Nel 2009, infatti, arriva il primo colpo di scena spiazzante e imbarazzante, vale a dire il Nobel “sulla fiducia” attribuito all’appena eletto presidente statunitense Barack Obama. Un precedente talmente scombicchierato da essere richiamato un po’ da tutti, in queste ore. In effetti, a partire d quel 2009, si è perso il conto delle azioni militari compiute dalle truppe statunitensi, e delle vittime che l’operato dei soldati agli ordini del “Nobel per la pace” ha finito per procurare.
Non contenti di ciò, gli accademici del Nobel sono partiti per la recidiva. Nel bel mezzo di una crisi epocale, causata proprio dalla pretesa degli eurocrati di ridurre ad impossibile unità, omologare e condizionare le disparate economie e diseconomie del continente sotto le insegne della finanza, che cosa di meglio di un altro bel premio “sulla fiducia” ad un’organizzazione che, tra l’altro, non è precisamente ai vertici di popolarità nel Continente intero?
L’operazione appare chiara: tentare un lifting di immagine dando fiato alle sfiatatissime trombe della retorica, da contrapporre a quelli che già da qualche tempo, ancor prima degli “eurogolpe” greco ed italiano venivano già bollati come i “pericolosi populismi”. Vale a dire, le visioni critiche di chi non accetta che siano le banche e la finanza a dover condizionare a qualunque costo la vita dei cittadini europei, a qualunque Stato appartengano.
E così, un’istituzione fresca fresca dello scippo di sovranità del “Fiscal Compact”, che tratta i cittadini come i dipendenti di un’azienda il cui sacrificio debba essere finalizzato al profitto e non al proprio benessere, si vede attribuita il premio che fu, citati in ordine sparso, di Begin e Sadat, di Desmond Tutu, Rigoberta Menchu, Aung San Suchi, Lech Walesa e Michail Gorbaciov, ed ancora Rabin, Peres ed Arafat. Quest’anno l’Accademia ha scelto, in sostanza, di “onorare” le oligarchie finanziarie che agiscono su tutto e su tutti senza essere state legittimate da nessuno se non da se stesse. Complimenti vivissimi.
D’altra parte, a prendere atto delle trombe e trombette suonate per l’occasione, c’è da rimanere di sasso. Se da Oslo il comitato fa sapere di aver premiato la Ue per «aver contribuito per sei decenni all’avanzamento della pace e della riconciliazione, la democrazia e i diritti umani in Europa», da parte dei beneficiati è tutto un fuoco retorico di fila che si commenta da solo: «La riconciliazione - ha detto il solito presidente del Parlamento europeo Martin Schulz - è ciò che l'Unione Europea è. Può servire come fonte di ispirazione. L’Ue è un progetto unico che ha sostituito la guerra con la pace, l'odio con la solidarietà». Tra banchieri e finanzieri, senza dubbio.
Il presidente della Commissione Ue Josè Manuel Barroso ha twittato: «È un grande onore per l'intera Unione europea e per tutti i 500 milioni di cittadini Ue essere premiati con il Nobel per la pace 2012». Da chiedersi quasi se i circa 850 mila euro del premio saranno poi devoluti a progetti di sostegno dei milioni di cittadini finiti in miseria per le politiche finanziarie di Bruxelles. Ma il “botto” retorico è provenuto dal presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, che si è gonfiato tanto al punto da rischiare l’effetto esplosivo della rana di Fedro: «La Ue è veramente la più grande istituzione per la pace mai creata nella storia del mondo».
I nodi logici ancora più stringenti devono infatti arrivare al pettine, se si pensa che questa Unione europea è composta di Stati che tutto hanno fatto fuorché starsene in pace. Dobbiamo ricordare, anche qui citati in ordine sparso, gli ultimi bombardamenti francesi in Libia o quelli - cui partecipò anche l’aeronautica italiana ai tempi del governo D’Alema del 1998, su Belgrado? Altro che “garanzia di pace”, Bruxelles non è stata mai in condizioni non solo di dotarsi di una politica militare o estera comune, ma tantomeno di impedire ai suoi stati membri di usare la forza bellica con esiti anche disastrosi sul fronte della popolazione civile.
Da ricordare, tra l’altro, che nell’esercito di uno Stato membro dell’Unione europea, ciòè la Spagna, vi sono militari che hanno invocato i carri armati contro la Catalunya nel caso dichiarasse l’indipendenza. Cosa che ha fatto anche nientemeno che un vicepresidente dello stesso Europarlamento, l’eurodeputato spagnolo del Partito popolare Alejo Vidal Quadras. Anche lui insignito del “Nobel per la pace”, evidentemente.
Per fortuna voci critiche si sono alzati dalla stessa assemblea di Strasburgo. «Penso che sia un’assoluta vergogna», ha tuonato l’europarlamentare britannico Nigel Farage, leader del partito Ukip, che da sempre è schierato contro lo strapotere delle oligarchie finanziarie che guidano la Ue senza alcuna legittimazione popolare. «Penso che (la decisione di oggi, ndr) discrediti totalmente il premio Nobel».
Il precedente di Obama parla chiaro: non sia mai che il Nobel per la pace all’Europa dei banchieri sia stato assegnato come una minaccia di pace eterna all’Europa dei popoli.
E il prossimo chi sarà? Probabilmente il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, magari «per il ruolo attivo nel mantenere la pace, l’equilibrio e la stabilità dell’area mediorientale». O, perché no, anche il presidente bielorusso Alexander Lukashenko, per la sua indubbia capacità di «impedire la pericolosa ulteriore destabilizzazione degli Stati fuoriusciti dall’ex Unione Sovietica». E perché allora non direttamente l’intero governo di Pechino, «per il determinante contributo alla pacificazione del Tibet»? Di motivazioni per un Nobel per la Pace sballato ai personaggi più improbabili ce ne sarebbero a iosa. E se le si volesse cercare, le si troverebbero pure, visto che cosa stanno combinando lassù in Norvegia.
Di certo, negli ultimi anni da quelle parti circola un’aria strana. Nel 2009, infatti, arriva il primo colpo di scena spiazzante e imbarazzante, vale a dire il Nobel “sulla fiducia” attribuito all’appena eletto presidente statunitense Barack Obama. Un precedente talmente scombicchierato da essere richiamato un po’ da tutti, in queste ore. In effetti, a partire d quel 2009, si è perso il conto delle azioni militari compiute dalle truppe statunitensi, e delle vittime che l’operato dei soldati agli ordini del “Nobel per la pace” ha finito per procurare.
Non contenti di ciò, gli accademici del Nobel sono partiti per la recidiva. Nel bel mezzo di una crisi epocale, causata proprio dalla pretesa degli eurocrati di ridurre ad impossibile unità, omologare e condizionare le disparate economie e diseconomie del continente sotto le insegne della finanza, che cosa di meglio di un altro bel premio “sulla fiducia” ad un’organizzazione che, tra l’altro, non è precisamente ai vertici di popolarità nel Continente intero?
L’operazione appare chiara: tentare un lifting di immagine dando fiato alle sfiatatissime trombe della retorica, da contrapporre a quelli che già da qualche tempo, ancor prima degli “eurogolpe” greco ed italiano venivano già bollati come i “pericolosi populismi”. Vale a dire, le visioni critiche di chi non accetta che siano le banche e la finanza a dover condizionare a qualunque costo la vita dei cittadini europei, a qualunque Stato appartengano.
E così, un’istituzione fresca fresca dello scippo di sovranità del “Fiscal Compact”, che tratta i cittadini come i dipendenti di un’azienda il cui sacrificio debba essere finalizzato al profitto e non al proprio benessere, si vede attribuita il premio che fu, citati in ordine sparso, di Begin e Sadat, di Desmond Tutu, Rigoberta Menchu, Aung San Suchi, Lech Walesa e Michail Gorbaciov, ed ancora Rabin, Peres ed Arafat. Quest’anno l’Accademia ha scelto, in sostanza, di “onorare” le oligarchie finanziarie che agiscono su tutto e su tutti senza essere state legittimate da nessuno se non da se stesse. Complimenti vivissimi.
D’altra parte, a prendere atto delle trombe e trombette suonate per l’occasione, c’è da rimanere di sasso. Se da Oslo il comitato fa sapere di aver premiato la Ue per «aver contribuito per sei decenni all’avanzamento della pace e della riconciliazione, la democrazia e i diritti umani in Europa», da parte dei beneficiati è tutto un fuoco retorico di fila che si commenta da solo: «La riconciliazione - ha detto il solito presidente del Parlamento europeo Martin Schulz - è ciò che l'Unione Europea è. Può servire come fonte di ispirazione. L’Ue è un progetto unico che ha sostituito la guerra con la pace, l'odio con la solidarietà». Tra banchieri e finanzieri, senza dubbio.
Il presidente della Commissione Ue Josè Manuel Barroso ha twittato: «È un grande onore per l'intera Unione europea e per tutti i 500 milioni di cittadini Ue essere premiati con il Nobel per la pace 2012». Da chiedersi quasi se i circa 850 mila euro del premio saranno poi devoluti a progetti di sostegno dei milioni di cittadini finiti in miseria per le politiche finanziarie di Bruxelles. Ma il “botto” retorico è provenuto dal presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, che si è gonfiato tanto al punto da rischiare l’effetto esplosivo della rana di Fedro: «La Ue è veramente la più grande istituzione per la pace mai creata nella storia del mondo».
I nodi logici ancora più stringenti devono infatti arrivare al pettine, se si pensa che questa Unione europea è composta di Stati che tutto hanno fatto fuorché starsene in pace. Dobbiamo ricordare, anche qui citati in ordine sparso, gli ultimi bombardamenti francesi in Libia o quelli - cui partecipò anche l’aeronautica italiana ai tempi del governo D’Alema del 1998, su Belgrado? Altro che “garanzia di pace”, Bruxelles non è stata mai in condizioni non solo di dotarsi di una politica militare o estera comune, ma tantomeno di impedire ai suoi stati membri di usare la forza bellica con esiti anche disastrosi sul fronte della popolazione civile.
Da ricordare, tra l’altro, che nell’esercito di uno Stato membro dell’Unione europea, ciòè la Spagna, vi sono militari che hanno invocato i carri armati contro la Catalunya nel caso dichiarasse l’indipendenza. Cosa che ha fatto anche nientemeno che un vicepresidente dello stesso Europarlamento, l’eurodeputato spagnolo del Partito popolare Alejo Vidal Quadras. Anche lui insignito del “Nobel per la pace”, evidentemente.
Per fortuna voci critiche si sono alzati dalla stessa assemblea di Strasburgo. «Penso che sia un’assoluta vergogna», ha tuonato l’europarlamentare britannico Nigel Farage, leader del partito Ukip, che da sempre è schierato contro lo strapotere delle oligarchie finanziarie che guidano la Ue senza alcuna legittimazione popolare. «Penso che (la decisione di oggi, ndr) discrediti totalmente il premio Nobel».
Il precedente di Obama parla chiaro: non sia mai che il Nobel per la pace all’Europa dei banchieri sia stato assegnato come una minaccia di pace eterna all’Europa dei popoli.
venerdì 12 ottobre 2012
Goebbels è vivo e lotta insieme a Monti. Ma chissenefrega.
L'altro giorno stavo guardando il telegiornale con mia zia. "E chissenefrega"?, vi starete chiedendo, memori dell'omonima rimpiantissima rubrica dell'altrettanto rimpianto settimanale satirico "Cuore", inserto dell'Unità di più di vent'anni fa. Ed il problema è proprio questo: chissenefrega se una signora pensionata al minimo, più vicina agli ottant'anni che ai settanta, ascolta al tg il resoconto del consiglio dei ministri ed esclama: "Finalmente dimuniscono le tasse".
C'è voluto del bello e del buono a spiegarle che il calo di un punto delle due aliquote Irpef più basse non l'avrebbe riguardata, mentre l'avrebbe centrata in pieno l'aumento secco di un punto sull'Iva.
Ma chissenefrega. Chissà quante pensionate e pensionati, casalinghe di Voghera e casalinghi di Roccasecca ci saranno cascati di fronte all'ultimo teatrino dei golpisti al governo. Quanti di loro, di questi inermi cittadini in balia dell'istupidimento di massa, senza strumenti per comprendere gli infernali meccanismi della propaganda televisiva e senza qualcuno accanto che cerca di spiegarglieli, avranno creduto al miracolo: finalmente quei signori distinti si riuniscono e danno una buona notizia...
Perché, il giorno dopo, il teatrino è andato avanti. Già, perché qualcuno ha fatto notare che la riduzione dell'Irpef (tutta da dimostrare) andrebbe a vantaggio solo di chi l'Irpef la paga e per quanto la paga, mentre il punto in più di Iva lo pagano tutti, ma proprio tutti, anche andando a comperare non il caviale, ma l'insalata. A maggior ragione i pensionati al minimo. E allora subito, di rincalzo, la rassicurazione degli imbonitori di turno: "Ma le famiglie trarranno comunque un vantaggio dall'aumento con diminuzione, o dalla diminuzione con aumento, fate voi". Ah beh, si beh.
"Ma come è possibile che in televisione dicano una cosa non vera"?, si è chiesta ancora mia zia. Che ha sì un nipote giornalista disallineato e disorganico, fortemente eversivo ed alquanto eretico, ma non sempre ha la voglia di starlo a sentire.
Ringraziamo quindi ancora una volta Herr Joseph Goebbels, il ministro della propaganda del Terzo Reich, più vivo che mai nelle sue intuizioni, nonché inventore imbattuto ed imbattibile del postulato della comunicazione di tutti i regimi di tutte le ere di tutti i punti cardinali: "Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità". Ringraziamolo, perché ci fornisce la spiegazione di come, per chi gestisce il monopolio quasi assoluto dell'informazione, sia sempre possibile in questa italia, contrariamente ad un altro celebre postulato, imbrogliare così tante persone per così lungo tempo.
Oggi Goebbels è sempre vivo, e lotta insieme a Mario Monti ed al suo governo. Sudditi di questo regime, continuate a dormire sonni tranquilli, siate sereni e fiduciosi che la ripresa arriverà: le tasse hanno già iniziato a scendere, rilassatevi. E se qualcuno ogni tanto fa una domanda scomoda abbiate sempre la risposta pronta: l'italia ora è rispettata in Europa e nel Mondo. Per tutti gli altri piccoli problemi? Chissenefrega.
C'è voluto del bello e del buono a spiegarle che il calo di un punto delle due aliquote Irpef più basse non l'avrebbe riguardata, mentre l'avrebbe centrata in pieno l'aumento secco di un punto sull'Iva.
Ma chissenefrega. Chissà quante pensionate e pensionati, casalinghe di Voghera e casalinghi di Roccasecca ci saranno cascati di fronte all'ultimo teatrino dei golpisti al governo. Quanti di loro, di questi inermi cittadini in balia dell'istupidimento di massa, senza strumenti per comprendere gli infernali meccanismi della propaganda televisiva e senza qualcuno accanto che cerca di spiegarglieli, avranno creduto al miracolo: finalmente quei signori distinti si riuniscono e danno una buona notizia...
Perché, il giorno dopo, il teatrino è andato avanti. Già, perché qualcuno ha fatto notare che la riduzione dell'Irpef (tutta da dimostrare) andrebbe a vantaggio solo di chi l'Irpef la paga e per quanto la paga, mentre il punto in più di Iva lo pagano tutti, ma proprio tutti, anche andando a comperare non il caviale, ma l'insalata. A maggior ragione i pensionati al minimo. E allora subito, di rincalzo, la rassicurazione degli imbonitori di turno: "Ma le famiglie trarranno comunque un vantaggio dall'aumento con diminuzione, o dalla diminuzione con aumento, fate voi". Ah beh, si beh.
"Ma come è possibile che in televisione dicano una cosa non vera"?, si è chiesta ancora mia zia. Che ha sì un nipote giornalista disallineato e disorganico, fortemente eversivo ed alquanto eretico, ma non sempre ha la voglia di starlo a sentire.
Ringraziamo quindi ancora una volta Herr Joseph Goebbels, il ministro della propaganda del Terzo Reich, più vivo che mai nelle sue intuizioni, nonché inventore imbattuto ed imbattibile del postulato della comunicazione di tutti i regimi di tutte le ere di tutti i punti cardinali: "Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità". Ringraziamolo, perché ci fornisce la spiegazione di come, per chi gestisce il monopolio quasi assoluto dell'informazione, sia sempre possibile in questa italia, contrariamente ad un altro celebre postulato, imbrogliare così tante persone per così lungo tempo.
Oggi Goebbels è sempre vivo, e lotta insieme a Mario Monti ed al suo governo. Sudditi di questo regime, continuate a dormire sonni tranquilli, siate sereni e fiduciosi che la ripresa arriverà: le tasse hanno già iniziato a scendere, rilassatevi. E se qualcuno ogni tanto fa una domanda scomoda abbiate sempre la risposta pronta: l'italia ora è rispettata in Europa e nel Mondo. Per tutti gli altri piccoli problemi? Chissenefrega.
lunedì 14 maggio 2012
Se la Grecia torna al voto, chissà se i tecnocrati tenteranno "un'aggiustatina" come in Irlanda...
(pubblicato su la Padania di domenica 13 maggio)
E tre, fuori un altro. Dopo che il leader di Nuova Democrazia Antonis Samaras e quello della sinistra radicale di Syriza Alexis Tsipras avevano rinunciato all’impresa impossibile di formare un nuovo Governo dopo le elezioni in Grecia del 6 maggio, anche Evangelos Venizelos, capo dei socialisti del Pasok, ha ieri mattina formalmente rinunciato all’incarico affidatogli dal presidente Karolos Papoulias. Toccherà ora allo stesso Papoulias compiere un ultimo tentativo per far uscire la Grecia dall’impasse politico prima di riaffidare la parola alle urne con nuove elezioni. Venizelos aveva annunciato il fallimento l’altroieri sera, dopo il rifiuto di Syriza, peraltro ampiamente preannunciato, di entrare a far parte di un Governo di unità nazionale con socialisti, conservatori e sinistra democratica. Il punto è sempre il solito. Il popolo greco ha sonoramente sconfitto nelle urne i diktat dei finanzieri della Ue e del Fmi, e la conseguente politica da macelleria sociale imposta tramite il "gauleiter" Papademos, con l’appoggio dei partiti tradizionali di Atene costretti a firmare un patto anche per il futuro, nei mesi precedenti il voto. Ma l’Ue non molla la presa. Il presidente Papoulias incontrerà inizialmente già oggi i tre leader dei principali partiti, che hanno già fallito, uno dopo l’altro, il mandato esplorativo. Successivamente il presidente greco vedrà individualmente i leader degli altri quattro partiti entrati in parlamento. D’altra parte, le soluzioni che si presentano all’orizzonte non sono per nulla scontate. Le pressioni da parte dei capi Ue e dei leader dei Paesi "forti" dell’euro perché ad Atene si insedi un Governo che continui l’opera di Papademos malgrado la maggioranza dei cittadini ellenici sia fermamente contraria, nei giorni scorsi si sono ripresentate insistenti, fino a sfociare di fatto in vere e proprie minacce. Comunque vada, appare ormai quasi scontato che il Paese ellenico sia avviato all’uscita dalla moneta unica. Il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, riportato da Giuseppe Vita, presidente di Unicredit, in conferenza stampa a Milano, «ha detto che se la Grecia dovesse decidere in maniera autonoma di uscire dall’euro, nessuno glielo può impedire». Pertanto, «credo che esistano dei piani B» per arginare il caos a catena che potrebbe derivare dall’uscita di Atene dalla moneta unica. L’ad Ghizzoni ha spiegato, rispondendo ad un’altra domanda, di non essere «così negativo in merito all’impatto sull’euro» di una possibile uscita unilaterale di Atene dalla moneta unica, «perché i mercati in maggioranza pensano che la Grecia uscirà. I mercati ne hanno già scontato l’effetto». Ormai, l’ottimismo di maniera dei rappresentanti dei poteri bancari non si rivolge più al fatto che la Grecia rimanga nell’euro ma al fatto che l’uscita della Grecia dall’euro non provocherà un caos come quello temuto. In realtà, anche negli stessi organi della Ue ci si inizia ad accorgere che le minacce e gli anatemi diretti rivolti alla Grecia rischiano davvero di non produrre affatto gli effetti sperati. E così, il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, ha ammorbidito decisamente i toni e si è detto ora favorevole alla possibilità di dare più tempo ad Atene per permetterle di rispettare gli impegni presi con Ue ed Fmi, scongiurando così anche il rischio di una sua uscita dall’euro. «Non mi aggrappo alla richiesta di farle rispettare gli obiettivi di politica di bilancio nel mese concordato - ha detto Juncker, parlando a Berlino - Non ho problemi, per esempio, a dare un anno di più alla Grecia». Tuttavia, ha ricordato ieri il premier lussemburghese alla vigilia della riunione dell’Eurogruppo a Bruxelles che avrà la Grecia tra i temi principali all’ordine del giorno, «potremo parlare dell’agenda del risanamento dello Stato greco quando sarà stato formato un Governo, al momento non possiamo avviare negoziati separatamente con i partiti greci, non sarebbe possibile». Juncker ha poi chiarito di non ritenere giusto tenere troppo sotto pressione i greci. «Dobbiasmo lasciare che siano loro a decidere», ha sottolineato, avvertendo tuttavia Atene che non ci sono alternative al risanamento dei conti pubblici. Si fa strada quindi un’altra strana premonizione: che si torni presto alle urne e che, questa volta, da esse scaturisca "miracolosamente" una qualche formula favorevole ai diktat Ue. I precedenti non mancano. In Irlanda per ben due volte un referendum popolare bocciò i voleri dell’Unione europea. Nel 2001 l’Isola verde disse "No" al Trattato di Nizza, nel 2008 fece naufragare quello di Lisbona. In entrambi i casi, si impose la forzatura: un referendum analogo l’anno successivo che, in entrambi i casi portò "miracolosamente" i risultato sperato dagli eurocrati. Vogliamo scommettere che le eventuali nuove elezioni greche altrettanto "miracolosamente" possano portare ad un risultato che tranquillizzi i poteri forti? È una scommessa che, in nome di ciò che resta del concetto di "democrazia", ci auguriamo di cuore di perdere.
E tre, fuori un altro. Dopo che il leader di Nuova Democrazia Antonis Samaras e quello della sinistra radicale di Syriza Alexis Tsipras avevano rinunciato all’impresa impossibile di formare un nuovo Governo dopo le elezioni in Grecia del 6 maggio, anche Evangelos Venizelos, capo dei socialisti del Pasok, ha ieri mattina formalmente rinunciato all’incarico affidatogli dal presidente Karolos Papoulias. Toccherà ora allo stesso Papoulias compiere un ultimo tentativo per far uscire la Grecia dall’impasse politico prima di riaffidare la parola alle urne con nuove elezioni. Venizelos aveva annunciato il fallimento l’altroieri sera, dopo il rifiuto di Syriza, peraltro ampiamente preannunciato, di entrare a far parte di un Governo di unità nazionale con socialisti, conservatori e sinistra democratica. Il punto è sempre il solito. Il popolo greco ha sonoramente sconfitto nelle urne i diktat dei finanzieri della Ue e del Fmi, e la conseguente politica da macelleria sociale imposta tramite il "gauleiter" Papademos, con l’appoggio dei partiti tradizionali di Atene costretti a firmare un patto anche per il futuro, nei mesi precedenti il voto. Ma l’Ue non molla la presa. Il presidente Papoulias incontrerà inizialmente già oggi i tre leader dei principali partiti, che hanno già fallito, uno dopo l’altro, il mandato esplorativo. Successivamente il presidente greco vedrà individualmente i leader degli altri quattro partiti entrati in parlamento. D’altra parte, le soluzioni che si presentano all’orizzonte non sono per nulla scontate. Le pressioni da parte dei capi Ue e dei leader dei Paesi "forti" dell’euro perché ad Atene si insedi un Governo che continui l’opera di Papademos malgrado la maggioranza dei cittadini ellenici sia fermamente contraria, nei giorni scorsi si sono ripresentate insistenti, fino a sfociare di fatto in vere e proprie minacce. Comunque vada, appare ormai quasi scontato che il Paese ellenico sia avviato all’uscita dalla moneta unica. Il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, riportato da Giuseppe Vita, presidente di Unicredit, in conferenza stampa a Milano, «ha detto che se la Grecia dovesse decidere in maniera autonoma di uscire dall’euro, nessuno glielo può impedire». Pertanto, «credo che esistano dei piani B» per arginare il caos a catena che potrebbe derivare dall’uscita di Atene dalla moneta unica. L’ad Ghizzoni ha spiegato, rispondendo ad un’altra domanda, di non essere «così negativo in merito all’impatto sull’euro» di una possibile uscita unilaterale di Atene dalla moneta unica, «perché i mercati in maggioranza pensano che la Grecia uscirà. I mercati ne hanno già scontato l’effetto». Ormai, l’ottimismo di maniera dei rappresentanti dei poteri bancari non si rivolge più al fatto che la Grecia rimanga nell’euro ma al fatto che l’uscita della Grecia dall’euro non provocherà un caos come quello temuto. In realtà, anche negli stessi organi della Ue ci si inizia ad accorgere che le minacce e gli anatemi diretti rivolti alla Grecia rischiano davvero di non produrre affatto gli effetti sperati. E così, il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, ha ammorbidito decisamente i toni e si è detto ora favorevole alla possibilità di dare più tempo ad Atene per permetterle di rispettare gli impegni presi con Ue ed Fmi, scongiurando così anche il rischio di una sua uscita dall’euro. «Non mi aggrappo alla richiesta di farle rispettare gli obiettivi di politica di bilancio nel mese concordato - ha detto Juncker, parlando a Berlino - Non ho problemi, per esempio, a dare un anno di più alla Grecia». Tuttavia, ha ricordato ieri il premier lussemburghese alla vigilia della riunione dell’Eurogruppo a Bruxelles che avrà la Grecia tra i temi principali all’ordine del giorno, «potremo parlare dell’agenda del risanamento dello Stato greco quando sarà stato formato un Governo, al momento non possiamo avviare negoziati separatamente con i partiti greci, non sarebbe possibile». Juncker ha poi chiarito di non ritenere giusto tenere troppo sotto pressione i greci. «Dobbiasmo lasciare che siano loro a decidere», ha sottolineato, avvertendo tuttavia Atene che non ci sono alternative al risanamento dei conti pubblici. Si fa strada quindi un’altra strana premonizione: che si torni presto alle urne e che, questa volta, da esse scaturisca "miracolosamente" una qualche formula favorevole ai diktat Ue. I precedenti non mancano. In Irlanda per ben due volte un referendum popolare bocciò i voleri dell’Unione europea. Nel 2001 l’Isola verde disse "No" al Trattato di Nizza, nel 2008 fece naufragare quello di Lisbona. In entrambi i casi, si impose la forzatura: un referendum analogo l’anno successivo che, in entrambi i casi portò "miracolosamente" i risultato sperato dagli eurocrati. Vogliamo scommettere che le eventuali nuove elezioni greche altrettanto "miracolosamente" possano portare ad un risultato che tranquillizzi i poteri forti? È una scommessa che, in nome di ciò che resta del concetto di "democrazia", ci auguriamo di cuore di perdere.
venerdì 6 aprile 2012
Salviamo la Grecia dai suoi salvatori: firmiamo anche noi
Un po' in ritardo (l'appello è del febbraio scorso) ma l'urgenza di aderire attivamente ad una visione opposta a quella dei banchieri e degli usurai al potere, che hanno già fatto della Grecia un "esperimento sociale" che ora è in pieno corso di applicazione in italia, è sempre alta. Io l'ho appena firmato. Facciamo circolare l'informazione, per cortesia.
Qui la traduzione in italiano.
Vicky Skoumbi, redattrice della rivista Aletheia, Dimitris Vergetis, direttore di Aletheia, Atene, Michel Surya, direttore della rivista Lignes, Parigi.
“Nel momento in cui un giovane greco su due è disoccupato, 25.000 persone senza tetto vagano per le strade di Atene, il 30 per cento della popolazione è ormai sotto la soglia della povertà, migliaia di famiglie sono costrette a dare in affidamento i bambini perché non crepino di fame e di freddo e i nuovi poveri e i rifugiati si contendono l’immondizia nelle discariche pubbliche, i “salvatori” della Grecia, col pretesto che i Greci “non fanno abbastanza sforzi”, impongono un nuovo piano di aiuti che raddoppia la dose letale già somministrata. Un piano che abolisce il diritto del lavoro e riduce i poveri alla miseria estrema, facendo contemporaneamente scomparire dal quadro le classi medie.
L’obiettivo non è il “salvataggio”della Grecia: su questo punto tutti gli economisti degni di questo nome concordano. Si tratta di guadagnare tempo per salvare i creditori, portando nel frattempo il Paese a un fallimento differito.Si tratta soprattutto di fare della Grecia il laboratorio di un cambiamento sociale che in un secondo momento verrà generalizzato a tutta l’Europa. Il modello sperimentato sulla pelle dei Greci è quello di una società senza servizi pubblici, in cui le scuole, gli ospedali e i dispensari cadono in rovina, la salute diventa privilegio dei ricchi e la parte più vulnerabile della popolazione è destinata a un’eliminazione programmata, mentre coloro che ancora lavorano sono condannati a forme estreme di impoverimento e di precarizzazione.
Ma perché questa offensiva neoliberista possa andare a segno, bisogna instaurare un regime che metta fra parentesi i diritti democratici più elementari. Su ingiunzione dei salvatori, vediamo quindi insediarsi in Europa dei governi di tecnocrati in spregio della sovranità popolare. Si tratta di una svolta nei regimi parlamentari, dove si vedono i “rappresentanti del popolo” dare carta bianca agli esperti e ai banchieri, abdicando dal loro supposto potere decisionale. Una sorta di colpo di stato parlamentare, che fa anche ricorso a un arsenale repressivo amplificato di fronte alle proteste popolari. Così, dal momento che i parlamentari avranno ratificato la Convenzione imposta dalla Troika (Ue, Bce, Fmi), diametralmente opposta al mandato che avevano ricevuto, un potere privo di legittimità democratica avrà ipotecato l’avvenire del Paese per 30 o 40 anni.
Parallelamente, l’Unione europea si appresta a istituire un conto bloccato dove verrà direttamente versato l’aiuto alla Grecia, perché venga impiegato unicamente al servizio del debito. Le entrate del Paese dovranno essere “in priorità assoluta” devolute al rimborso dei creditori e, se necessario, versate direttamente su questo conto gestito dalla Ue. La Convenzione stipula che ogni nuova obbligazione emessa in questo quadro sarà regolata dal diritto anglosassone, che implica garanzie materiali, mentre le vertenze verranno giudicate dai tribunali del Lussemburgo, avendo la Grecia rinunciato anticipatamente a qualsiasi diritto di ricorso contro sequestri e pignoramenti decisi dai creditori. Per completare il quadro, le privatizzazioni vengono affidate a una cassa gestita dalla Troika, dove saranno depositati i titoli di proprietà dei beni pubblici.. In altri termini, si tratta di un saccheggio generalizzato, caratteristica propria del capitalismo finanziario che si dà qui una bella consacrazione istituzionale.
Poiché venditori e compratori siederanno dalla stessa parte del tavolo, non vi è dubbio alcuno che questa impresa di privatizzazione sarà un vero festino per chi comprerà.
Ora, tutte le misure prese fino a ora non hanno fatto che accrescere il debito sovrano greco, che, con il soccorso dei salvatori che fanno prestiti a tassi di usura, è letteralmente esploso sfiorando il 170% di un Pil in caduta libera, mentre nel 2009 era ancora al 120%. C’è da scommettere che questa coorte di piani di salvataggio – ogni volta presentati come ‘ultimi’- non ha altro scopo che indebolire sempre di più la posizione della Grecia, in modo che, privata di qualsiasi possibilità di proporre da parte sua i termini di una ristrutturazione, sia costretta a cedere tutto ai creditori, sotto il ricatto “austerità o catastrofe”.
L’aggravamento artificiale e coercitivo del problema del debito è stato utilizzato come un’arma per prendere d’assalto una società intera. E non è un caso che usiamo qui dei termini militare: si tratta propriamente di una guerra, condotta con i mezzi della finanza, della politica e del diritto, una guerra di classe contro un’intera società. E il bottino che la classe finanziaria conta di strappare al ‘nemico’ sono le conquiste sociali e i diritti democratici, ma, alla fine dei conti, è la stessa possibilità di una vita umana. La vita di coloro che agli occhi delle strategie di massimizzazione del profitto non producono o non consumano abbastanza non dev’essere più preservata.
E così la debolezza di un paese preso nella morsa fra speculazione senza limiti e piani di salvataggio devastanti diviene la porta d’entrata mascherata attraverso la quale fa irruzione un nuovo modello di società conforme alle esigenze del fondamentalismo neoliberista. Un modello destinato all’Europa intera e anche oltre. E’ questa la vera questione in gioco. Ed è per questo che difendere il popolo greco non si riduce solo a un gesto di solidarietà o di umanità: in gioco ci sono l’avvenire della democrazia e le sorti del popolo europeo.
Dappertutto la “necessità imperiosa” di un’austerità dolorosa ma salutare ci viene presentata come il mezzo per sfuggire al destino greco, mentre vi conduce dritto. Di fronte a questo attacco in piena regola contro la società, di fronte alla distruzione delle ultime isole di democrazia, chiediamo ai nostri concittadini, ai nostri amici francesi e europei di prendere posizione con voce chiara e forte. Non bisogna lasciare il monopolio della parola agli esperti e ai politici. Il fatto che, su richiesta dei governanti tedeschi e francesi in particolare, alla Grecia siano ormai impedite le elezioni può lasciarci indifferenti? La stigmatizzazione e la denigrazione sistematica di un popolo europeo non meritano una presa di posizione? E’ possibile non alzare la voce contro l’assassinio istituzionale del popolo greco? Possiamo rimanere in silenzio di fronte all’instaurazione a tappe forzate di un sistema che mette fuori legge l’idea stessa di solidarietà sociale?
Siamo a un punto di non ritorno. E’ urgente condurre la battaglia di cifre e la guerra delle parole per contrastare la retorica ultra-liberista della paura e della disinformazione. E’ urgente decostruire le lezioni di morale che occultano il processo reale in atto nella società. E diviene più che urgente demistificare l’insistenza razzista sulla “specificità greca” che pretende di fare del supposto carattere nazionale di un popolo (parassitismo e ostentazione a volontà) la causa prima di una crisi in realtà mondiale. Ciò che conta oggi non sono le particolarità, reali o immaginari, ma il comune: la sorte di un popolo che contagerà tutti gli altri.
Molte soluzioni tecniche sono state proposte per uscire dall’alternativa “o la distruzione della società o il fallimento” (che vuol dire, lo vediamo oggi, sia la distruzione sia il fallimento). Tutte vanno prese in considerazione come elementi di riflessione per la costruzione di un’altra Europa. Prima di tutto però bisogna denunciare il crimine, portare alla luce la situazione nella quale si trova il popolo greco a causa dei “piani d’aiuto” concepiti dagli speculatori e i creditori a proprio vantaggio. Mentre nel mondo si tesse un movimento di sostegno e Internet ribolle di iniziative di solidarietà, gli intellettuali saranno gli ultimi ad alzare la loro voce per la Grecia? Senza attendere ancora, moltiplichiamo gli articoli, gli interventi, i dibattiti, le petizioni, le manifestazioni. Ogni iniziativa è la benvenuta, ogni iniziativa è urgente. Da parte nostra ecco che cosa proponiamo: andare velocemente verso la formazione di un comitato europeo di intellettuali e di artisti per la solidarietà con il popolo greco che resiste. Se non lo facciamo noi, chi lo farà? Se non adesso, quando?”
Vicky Skoumbi, redattrice della rivista Aletheia, Atene, Dimitris Vergetis, direttore di Aletheia, Michel Surya, direttore della rivista Lignes, Parigi.
Per firmare l'appello (l'orginale in lingua francese) seguite questo link.
http://www.editions-lignes.com/sauvons-le-peuple-grec-de-ses.html
Qui la traduzione in italiano.
Vicky Skoumbi, redattrice della rivista Aletheia, Dimitris Vergetis, direttore di Aletheia, Atene, Michel Surya, direttore della rivista Lignes, Parigi.
“Nel momento in cui un giovane greco su due è disoccupato, 25.000 persone senza tetto vagano per le strade di Atene, il 30 per cento della popolazione è ormai sotto la soglia della povertà, migliaia di famiglie sono costrette a dare in affidamento i bambini perché non crepino di fame e di freddo e i nuovi poveri e i rifugiati si contendono l’immondizia nelle discariche pubbliche, i “salvatori” della Grecia, col pretesto che i Greci “non fanno abbastanza sforzi”, impongono un nuovo piano di aiuti che raddoppia la dose letale già somministrata. Un piano che abolisce il diritto del lavoro e riduce i poveri alla miseria estrema, facendo contemporaneamente scomparire dal quadro le classi medie.
L’obiettivo non è il “salvataggio”della Grecia: su questo punto tutti gli economisti degni di questo nome concordano. Si tratta di guadagnare tempo per salvare i creditori, portando nel frattempo il Paese a un fallimento differito.Si tratta soprattutto di fare della Grecia il laboratorio di un cambiamento sociale che in un secondo momento verrà generalizzato a tutta l’Europa. Il modello sperimentato sulla pelle dei Greci è quello di una società senza servizi pubblici, in cui le scuole, gli ospedali e i dispensari cadono in rovina, la salute diventa privilegio dei ricchi e la parte più vulnerabile della popolazione è destinata a un’eliminazione programmata, mentre coloro che ancora lavorano sono condannati a forme estreme di impoverimento e di precarizzazione.
Ma perché questa offensiva neoliberista possa andare a segno, bisogna instaurare un regime che metta fra parentesi i diritti democratici più elementari. Su ingiunzione dei salvatori, vediamo quindi insediarsi in Europa dei governi di tecnocrati in spregio della sovranità popolare. Si tratta di una svolta nei regimi parlamentari, dove si vedono i “rappresentanti del popolo” dare carta bianca agli esperti e ai banchieri, abdicando dal loro supposto potere decisionale. Una sorta di colpo di stato parlamentare, che fa anche ricorso a un arsenale repressivo amplificato di fronte alle proteste popolari. Così, dal momento che i parlamentari avranno ratificato la Convenzione imposta dalla Troika (Ue, Bce, Fmi), diametralmente opposta al mandato che avevano ricevuto, un potere privo di legittimità democratica avrà ipotecato l’avvenire del Paese per 30 o 40 anni.
Parallelamente, l’Unione europea si appresta a istituire un conto bloccato dove verrà direttamente versato l’aiuto alla Grecia, perché venga impiegato unicamente al servizio del debito. Le entrate del Paese dovranno essere “in priorità assoluta” devolute al rimborso dei creditori e, se necessario, versate direttamente su questo conto gestito dalla Ue. La Convenzione stipula che ogni nuova obbligazione emessa in questo quadro sarà regolata dal diritto anglosassone, che implica garanzie materiali, mentre le vertenze verranno giudicate dai tribunali del Lussemburgo, avendo la Grecia rinunciato anticipatamente a qualsiasi diritto di ricorso contro sequestri e pignoramenti decisi dai creditori. Per completare il quadro, le privatizzazioni vengono affidate a una cassa gestita dalla Troika, dove saranno depositati i titoli di proprietà dei beni pubblici.. In altri termini, si tratta di un saccheggio generalizzato, caratteristica propria del capitalismo finanziario che si dà qui una bella consacrazione istituzionale.
Poiché venditori e compratori siederanno dalla stessa parte del tavolo, non vi è dubbio alcuno che questa impresa di privatizzazione sarà un vero festino per chi comprerà.
Ora, tutte le misure prese fino a ora non hanno fatto che accrescere il debito sovrano greco, che, con il soccorso dei salvatori che fanno prestiti a tassi di usura, è letteralmente esploso sfiorando il 170% di un Pil in caduta libera, mentre nel 2009 era ancora al 120%. C’è da scommettere che questa coorte di piani di salvataggio – ogni volta presentati come ‘ultimi’- non ha altro scopo che indebolire sempre di più la posizione della Grecia, in modo che, privata di qualsiasi possibilità di proporre da parte sua i termini di una ristrutturazione, sia costretta a cedere tutto ai creditori, sotto il ricatto “austerità o catastrofe”.
L’aggravamento artificiale e coercitivo del problema del debito è stato utilizzato come un’arma per prendere d’assalto una società intera. E non è un caso che usiamo qui dei termini militare: si tratta propriamente di una guerra, condotta con i mezzi della finanza, della politica e del diritto, una guerra di classe contro un’intera società. E il bottino che la classe finanziaria conta di strappare al ‘nemico’ sono le conquiste sociali e i diritti democratici, ma, alla fine dei conti, è la stessa possibilità di una vita umana. La vita di coloro che agli occhi delle strategie di massimizzazione del profitto non producono o non consumano abbastanza non dev’essere più preservata.
E così la debolezza di un paese preso nella morsa fra speculazione senza limiti e piani di salvataggio devastanti diviene la porta d’entrata mascherata attraverso la quale fa irruzione un nuovo modello di società conforme alle esigenze del fondamentalismo neoliberista. Un modello destinato all’Europa intera e anche oltre. E’ questa la vera questione in gioco. Ed è per questo che difendere il popolo greco non si riduce solo a un gesto di solidarietà o di umanità: in gioco ci sono l’avvenire della democrazia e le sorti del popolo europeo.
Dappertutto la “necessità imperiosa” di un’austerità dolorosa ma salutare ci viene presentata come il mezzo per sfuggire al destino greco, mentre vi conduce dritto. Di fronte a questo attacco in piena regola contro la società, di fronte alla distruzione delle ultime isole di democrazia, chiediamo ai nostri concittadini, ai nostri amici francesi e europei di prendere posizione con voce chiara e forte. Non bisogna lasciare il monopolio della parola agli esperti e ai politici. Il fatto che, su richiesta dei governanti tedeschi e francesi in particolare, alla Grecia siano ormai impedite le elezioni può lasciarci indifferenti? La stigmatizzazione e la denigrazione sistematica di un popolo europeo non meritano una presa di posizione? E’ possibile non alzare la voce contro l’assassinio istituzionale del popolo greco? Possiamo rimanere in silenzio di fronte all’instaurazione a tappe forzate di un sistema che mette fuori legge l’idea stessa di solidarietà sociale?
Siamo a un punto di non ritorno. E’ urgente condurre la battaglia di cifre e la guerra delle parole per contrastare la retorica ultra-liberista della paura e della disinformazione. E’ urgente decostruire le lezioni di morale che occultano il processo reale in atto nella società. E diviene più che urgente demistificare l’insistenza razzista sulla “specificità greca” che pretende di fare del supposto carattere nazionale di un popolo (parassitismo e ostentazione a volontà) la causa prima di una crisi in realtà mondiale. Ciò che conta oggi non sono le particolarità, reali o immaginari, ma il comune: la sorte di un popolo che contagerà tutti gli altri.
Molte soluzioni tecniche sono state proposte per uscire dall’alternativa “o la distruzione della società o il fallimento” (che vuol dire, lo vediamo oggi, sia la distruzione sia il fallimento). Tutte vanno prese in considerazione come elementi di riflessione per la costruzione di un’altra Europa. Prima di tutto però bisogna denunciare il crimine, portare alla luce la situazione nella quale si trova il popolo greco a causa dei “piani d’aiuto” concepiti dagli speculatori e i creditori a proprio vantaggio. Mentre nel mondo si tesse un movimento di sostegno e Internet ribolle di iniziative di solidarietà, gli intellettuali saranno gli ultimi ad alzare la loro voce per la Grecia? Senza attendere ancora, moltiplichiamo gli articoli, gli interventi, i dibattiti, le petizioni, le manifestazioni. Ogni iniziativa è la benvenuta, ogni iniziativa è urgente. Da parte nostra ecco che cosa proponiamo: andare velocemente verso la formazione di un comitato europeo di intellettuali e di artisti per la solidarietà con il popolo greco che resiste. Se non lo facciamo noi, chi lo farà? Se non adesso, quando?”
Vicky Skoumbi, redattrice della rivista Aletheia, Atene, Dimitris Vergetis, direttore di Aletheia, Michel Surya, direttore della rivista Lignes, Parigi.
Per firmare l'appello (l'orginale in lingua francese) seguite questo link.
http://www.editions-lignes.com/sauvons-le-peuple-grec-de-ses.html
lunedì 2 aprile 2012
Se Mario Monti smentisce Mario Monti. Sacrifici equi o sacrifici rozzi?
Mario Monti, in un impeto di autocritica evidentemente non del tutto sobria, smentisce Mario Monti. O forse il Prof è caduto vittima di uno sdoppiamento di personalità dovuto a troppo stress da jet lag tra Italia ed Asia. Può anche essere che al robottino Monti impersonato dal geniale Maurizio Crozza si sia fuso qualcuno dei proverbiali circuiti di mille valvole. Molto più probabilmente, il premier non sa più che pesci pigliare e, a seconda delle circostanze e degli interlocutori, emette le prime frasi di circostanza che gli vengono in mente pur di tentare di difendersi dal precipizio in cui ha iniziato a sprofondare in silenzio la sua popolarità.
Fatto è che appena lunedì scorso, con la testa letteralmente tra le nuvole in quanto sul volo di Stato che lo trasportava a Seul, l’ineffabile Prof, con i sobri toni di circostanza che gli sono consueti, cercava di convincere i giornalisti e i cittadini del Belpaese che gli esponenti del Governo avessero «cercato in questi mesi di essere equi nel distribuire i sacrifici». Malgrado i giornalisti si siano fatti convincere senza troppa difficoltà, la dichiarazione del premier, naturalmente, cozzava di netto con la realtà di questi giorni. Non certo quella raccontata all’unisono dagli allineatissimi organi di informazione ma, molto più prosaicamente, una realtà stampata a chiare lettere e a scarsi numeri nelle buste paga di marzo. Per quelli, naturalmente, che una busta paga si possono permettere ancora ancora il lusso (o la monotonia, sempre per usare le parole di Monti) di potersela portare a casa.
Ieri, a sorpresa, le agenzie battevano invece il controordine, sempre proveniente da un Monti in viaggio ad Est, in particolare da Pechino. Alla parola “sacrifici” il presidente del Consiglio affiancava infatti uno sbalorditivo aggettivo, ben diverso dal primo: non più “equi” bensì “rozzi”.
«Gli aumenti fiscali e tariffari - ha sottolineato il presidente del Consiglio in conferenza stampa - sono strumenti un po’ rozzi, il risultato differito di decisioni prese in passato». Inutile dire che ne ha comunque difeso quella che ritiene essere la loro ineluttabilità: senza questi sacrifici, ha detto, l’Italia rischiava di finire come la Grecia. A suo onore, dopo quella frase sul passato che sembrava tanto uno scaricabarile, ha però voluto precisare che per i sacrifici «sono pronto ad assumermi le mie responsabilità, sono stati introdotti da questo Governo». Per il futuro, ha aggiunto, «dobbiamo dobbiamo trovare strumenti più sofisticati».
Nel frattempo, prima che i sacrifici da “rozzi” arrivino quindi ad essere “sofisticati”, la pace sociale è garantita dal fatto che, malgrado tutto, le piazze restano vuote. Come le nostre tasche.
“Occupy” e l’antagonismo da soli non bastano
Migliaia di manifestanti, soprattutto provenienti dalla sinistra oggi extraparlamentare, dai centri sociali e da alcune sigle dei sindacati di base, ieri hanno dato vita a Milano, sotto la sigla di “Occupy Piazza Affari” ad una manifestazione di rivolta contro «lo strapotere delle banche», si leggeva negli striscioni, e contro la piovra della finanza globale abilmente riprodotta in cartapesta e dai cui tentacoli pendeva la triade Monti-Fornero-Passera. La parte scesa in piazza, tuttavia, resta marginale rispetto alla stragrande maggioranza di un Paese che ancora viene tenuto artificialmente calmo dall’acquiescenza di stampa, tv e sindacati maggioritari. Tutti soggetti ben allineati e coperti con i poteri forti e con i loro rappresentanti fraudolentemente al Governo.
Ben diversa, ad esempio, la situazione in Spagna, dove giovedì scorso i sindacati più rappresentativi hanno dato vita ad uno sciopero generale contro le politiche del premier Mariano Rajoy. Una fermata dal lavoro su tutto il territorio del Regno di Madrid che una fonte come il Sole 24 Ore ha definito «con alto tasso di adesione».
Il punto, però, è sempre lo stesso: lì la sinistra istituzionale, quella che tiene tese e funzionanti le cinghie di trasmissione con i lavoratori ed i sindacati, si trova comoda e tranquilla all’opposizione. Non certo come in Italia, dove pur con mille mal di pancia ed una lacerante guerra interna, le forze che si dicono “di sinistra” rappresentate in Parlamento continuano ad appoggiare la macelleria sociale della triade Monti-Passera-Fornero.
Agli “Occupy”, quindi, viene lasciato volentieri l’incarico di manifestare per conto loro, ma in ordine sparso, e con la sottaciuta speranza che scontri, incidenti o semplicemente gesti un po’ troppo plateali come quelli di ieri contro le banche a Milano, inducano l’opinione pubblica a dissociarsi non soltanto dai metodi di lotta ma anche, di conseguenza, dalle sacrosante ragioni di chi dichiara di volerla combattere.
Un teatro già visto in tante epoche e in tante latitudini. Non saranno certo i mattoni malamente impilati dai manifestanti di fronte all’ingresso della Bnl o la vetrina annerita dell’Unicredit ad impedire che lo scempio sociale si compia. Il balbettio incoerente di chi è al Governo ed il silenzio compiaciuto di chi dovrebbe fare informazione sono ancora una volta al servizio dei potenti.
(pubblicato su la Padania di domenica 1° aprile)
Fatto è che appena lunedì scorso, con la testa letteralmente tra le nuvole in quanto sul volo di Stato che lo trasportava a Seul, l’ineffabile Prof, con i sobri toni di circostanza che gli sono consueti, cercava di convincere i giornalisti e i cittadini del Belpaese che gli esponenti del Governo avessero «cercato in questi mesi di essere equi nel distribuire i sacrifici». Malgrado i giornalisti si siano fatti convincere senza troppa difficoltà, la dichiarazione del premier, naturalmente, cozzava di netto con la realtà di questi giorni. Non certo quella raccontata all’unisono dagli allineatissimi organi di informazione ma, molto più prosaicamente, una realtà stampata a chiare lettere e a scarsi numeri nelle buste paga di marzo. Per quelli, naturalmente, che una busta paga si possono permettere ancora ancora il lusso (o la monotonia, sempre per usare le parole di Monti) di potersela portare a casa.
Ieri, a sorpresa, le agenzie battevano invece il controordine, sempre proveniente da un Monti in viaggio ad Est, in particolare da Pechino. Alla parola “sacrifici” il presidente del Consiglio affiancava infatti uno sbalorditivo aggettivo, ben diverso dal primo: non più “equi” bensì “rozzi”.
«Gli aumenti fiscali e tariffari - ha sottolineato il presidente del Consiglio in conferenza stampa - sono strumenti un po’ rozzi, il risultato differito di decisioni prese in passato». Inutile dire che ne ha comunque difeso quella che ritiene essere la loro ineluttabilità: senza questi sacrifici, ha detto, l’Italia rischiava di finire come la Grecia. A suo onore, dopo quella frase sul passato che sembrava tanto uno scaricabarile, ha però voluto precisare che per i sacrifici «sono pronto ad assumermi le mie responsabilità, sono stati introdotti da questo Governo». Per il futuro, ha aggiunto, «dobbiamo dobbiamo trovare strumenti più sofisticati».
Nel frattempo, prima che i sacrifici da “rozzi” arrivino quindi ad essere “sofisticati”, la pace sociale è garantita dal fatto che, malgrado tutto, le piazze restano vuote. Come le nostre tasche.
“Occupy” e l’antagonismo da soli non bastano
Migliaia di manifestanti, soprattutto provenienti dalla sinistra oggi extraparlamentare, dai centri sociali e da alcune sigle dei sindacati di base, ieri hanno dato vita a Milano, sotto la sigla di “Occupy Piazza Affari” ad una manifestazione di rivolta contro «lo strapotere delle banche», si leggeva negli striscioni, e contro la piovra della finanza globale abilmente riprodotta in cartapesta e dai cui tentacoli pendeva la triade Monti-Fornero-Passera. La parte scesa in piazza, tuttavia, resta marginale rispetto alla stragrande maggioranza di un Paese che ancora viene tenuto artificialmente calmo dall’acquiescenza di stampa, tv e sindacati maggioritari. Tutti soggetti ben allineati e coperti con i poteri forti e con i loro rappresentanti fraudolentemente al Governo.
Ben diversa, ad esempio, la situazione in Spagna, dove giovedì scorso i sindacati più rappresentativi hanno dato vita ad uno sciopero generale contro le politiche del premier Mariano Rajoy. Una fermata dal lavoro su tutto il territorio del Regno di Madrid che una fonte come il Sole 24 Ore ha definito «con alto tasso di adesione».
Il punto, però, è sempre lo stesso: lì la sinistra istituzionale, quella che tiene tese e funzionanti le cinghie di trasmissione con i lavoratori ed i sindacati, si trova comoda e tranquilla all’opposizione. Non certo come in Italia, dove pur con mille mal di pancia ed una lacerante guerra interna, le forze che si dicono “di sinistra” rappresentate in Parlamento continuano ad appoggiare la macelleria sociale della triade Monti-Passera-Fornero.
Agli “Occupy”, quindi, viene lasciato volentieri l’incarico di manifestare per conto loro, ma in ordine sparso, e con la sottaciuta speranza che scontri, incidenti o semplicemente gesti un po’ troppo plateali come quelli di ieri contro le banche a Milano, inducano l’opinione pubblica a dissociarsi non soltanto dai metodi di lotta ma anche, di conseguenza, dalle sacrosante ragioni di chi dichiara di volerla combattere.
Un teatro già visto in tante epoche e in tante latitudini. Non saranno certo i mattoni malamente impilati dai manifestanti di fronte all’ingresso della Bnl o la vetrina annerita dell’Unicredit ad impedire che lo scempio sociale si compia. Il balbettio incoerente di chi è al Governo ed il silenzio compiaciuto di chi dovrebbe fare informazione sono ancora una volta al servizio dei potenti.
(pubblicato su la Padania di domenica 1° aprile)
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Informazioni personali

- Gioann March Pòlli
- Mi chiamo Gioann March Pòlli (Giovanni Marco Polli all'anagrafe italiana). Sono giornalista professionista e per quasi diciotto anni mi sono occupato di politica, culture e identità per il quotidiano la Padania. Credo nella libertà assoluta di pensiero e odio visceralmente le catene odiose del "politicamente corretto". E non mi piacciono, in un libero confronto di idee, barriere ideologiche, geografiche o mentali. Scrivetemi a camera.nord@libero.it